“Fa’ la cosa giusta”: la recezione di Amoris Laetitia e le categorie dei canonisti


imago-esortazione_apostolica_amoris_letitia

 

Ho letto con attenzione la Prolusione che Mons. P. Pavanello, Vescovo di Adria-Rovigo, ha proposto il giorno 1 febbraio davanti al Tribunale Interdiocesano Piemontese. Il tema è (apparentemente) centrale: DICHIARAZIONE DI NULLITÀ DEL MATRIMONIO E DISCERNIMENTO DI COSCIENZA: VIE DIVERSE E COMPLEMENTARI PER LA CURA PASTORALE DELLE SITUAZIONI MATRIMONIALI «IRREGOLARI». Mi sembra utile fornire la linea fondamentale di riflessione proposta dal canonista e mostrarne i limiti storici e pastorali rispetto al disegno proposto autorevolmente da Amoris Laetitia.

1. Al centro della Prolusione

In breve, si può rilevare che le 10 pagine proposte alla riflessione individuano con precisione la questione assunta in modo nuovo da “Amoris Laetitia”: ossia un nuovo rapporto tra “foro esterno” e “foro interno”, tra forma giudiziaria di valutazione del “vincolo” e discernimento di coscienza del soggetto. Il relatore appare consapevole del fatto che la insistenza sul versante oggettivo, che ha caratterizzato la tradizione magisteriale fino a Familiaris Consortio, trovi ora con Amoris Laetitia una nuova considerazione del soggetto e della sua coscienza. Che cosa questo significhi per la “cura pastorale”, tuttavia, sembra rimanere piuttosto in ombra. Da un lato, infatti, si fanno grandi affermazioni sul bisogno di una “considerazione più ampia delle questioni”, ma in concreto questa ampiezza di sguardo viene di fatto impadita da “categorie bloccate”. Le categorie inadeguate pregiudicano il giudizio e, di fatto, assicurano un esito sostanzialmente di una totale conferma di ciò che è avvenuto sinora. Addirittura, con una accelerazione finale del discorso, si ribadisce di fatto il giudizio che nel 2000 era stato dato dal Pontificio Consiglio per i testi legislativi circa la “ostinata perseveranza in peccato grave manifesto”. Tale testo, infatti, risulta di fatto superato dalla nuova interpretazione del testo paolino che AL 185 provvede a chiarire e di cui, evidentemente, il relatore sembra restare all’oscuro. Certo è che questo passaggio problematico aiuta il relatore a concludere con una sintesi, dalla quale trapela, in modo evidente, una precomprensione gravemente riduttiva. Egli scrive infatti:

A questo proposito ritengo sia utile segnalare la differenza rispetto all’itinerario penitenziale che era stato proposto nel corso dei due Sinodi sulla famiglia del 2014 e 201517 e che, sul modello di quanto avviene nelle chiese ortodosse, avrebbe costituito una soluzione «in foro esterno» concludendosi con un atto pubblico di riammissione ai sacramenti. La via indicata da AL è molto diversa: il discernimento si caratterizza proprio per essere un cammino fatto nell’ambito della coscienza (e quindi personale, anche se può essere di aiuto la partecipazione a percorsi di gruppo) e che porta ad un giudizio di coscienza, in quanto tale non avente rilevanza pubblica ed esteriore nella comunità(p.8).

Il punto-chiave problematico è proprio questa conclusione sulla “irrilevanza pubblica e comunitaria” della coscienza. Questa lettura, infatti, nonostante tutti i buoni propositi espressi nelle pagine iniziali, sancisce una visione della questione che viene elaborata secondo una “irrilevanza pubblica della coscienza” che è tipica della società chiusa e di una visione della Chiesa come “societas inaequalis”. Come accade non raramente, alcuni canonisti coltivano, sotto la coltre dei loro ragionamenti formali, la segreta nostalgia di poter affrontare le questioni ecclesiali e matrimoniali, conservando una rigida distinzione tra coscienza e istituzione, e restando così al di qua della Chiesa che riconosce la “libertà di coscienza” come una componente essenziale della comunità e della stessa sfera pubblica. Per questo occorre riconoscere che, alla radice di questa analisi insufficiente, vi sono categorie di linguaggio e di pensiero che non sono più capaci di parlare della realtà e che vanno accuratamente fatte oggetto di rielaborazione.

2.Fa’ la cosa giusta”e non dar spago a categorie inadeguate

Come ho detto, il primo punto su cui dobbiamo lavorare, ecclesialmente e pastoralmente, è proprio quello delle categorie che utilizziamo. E questo spetta a tutti, ma in primo luogo ai pastori e ai canonisti. I pastori e i canonisti debbono fare la cosa giusta, e non soffermarsi sulle quisquilie. La prima cosa da fare è non capovolgere il discorso di AL. In AL, infatti, vi è la apertura di un orizzonte nuovo, pensato ancora con le categorie classiche, ma portate al loro limite, chiedendo a chi ne recepisce il significato, di muoversi “oltre”. Se impostiamo invece la questione come una “tensione tra dichiarazione di nullità e coscienza”, restiamo del tutto all’interno del sistema di “giustizia” e di “verità” che non assicura più né giustizia né verità. Proprio la rilevanza della “coscienza” non è un piccolo additivo, un tocco di pepe o di origano che si aggiunge alla minestra riscaldata del “processo canonico” o della “confessione sacramentale”. E’ piuttosto l’elemento che ridefinisce l’orizzonte e impone una “terza dimensione”, ossia quel “foro pastorale”, in cui l’esteriore determina l’interiore e l’interiore ha effetto sulla comunità e sul piano pubblico. Proprio qui, a me pare, l’uso distorto delle categorie classiche, anziché assicurare intelligenza, blocca in modo autoreferenziale la possibilità di “toccare il reale”. Se parlo della coscienza, e ne parlo per 5 o 6 pagine, ma arrivo alla conclusione che il riferimento alla coscienza non può in nessun modo incidere sull’assetto istituzionale, di fatto avvaloro un “primato dello scandalo” che blocca il sistema a prima di AL. E’ chiaro che, in questa materia, occorre “prudenza”. Ma il concetto di “prudenza” che AL ha finalmente riaffermato non è “evitare lo scandalo della nuova unione”, ma anche e forse soprattutto “evitale lo scandalo di non saper riconoscere nuove condizioni di comunione”. E riconoscere non significa soltanto pronunciare la parola autorevole sussurrata nel confessionale, ma essere capaci di un atto ecclesiale e di un documento di riconoscimento opponibile a terzi. Questo è il punto decisivo: c’è una “opponibilità ai terzi” delle nuove condizioni di vita che rende la logica stessa del “libello” – la cui natura paternalistica non riesce ancora ad essere del tutto superata – una categoria che merita una accurata e non superficiale discussione.

A ciò va aggiunto che il riferimento alla coscienza, tanto insistito quanto inefficace, non può essere separato dal riferimento alla storia. I coniugi che vivono il matrimonio, e che in questa vicenda entrano in crisi, non hanno solo una coscienza, ma hanno anche una storia. Il loro “vincolo” ha una storia, che non può essere compresa solo al suo inizio. La “storia del vincolo” è una parola quasi “incomprensibile” per le categoria dei canonisti. Finché essi non sapranno darsi le parole e le forme istituzionali per aprirsi a quella realtà, che è la rilevanza della storia dei soggetti, sapranno solo costruire modellini-giocattolo, con cui proveranno – se va bene – a leggere la realtà, o che useranno solo come specchi, su cui riflettere la loro ricostruzione astratta e pedagogica del reale. Nel momento in cui riconosceremo che la “storia del vincolo” ha un rilievo comunitario e istituzionale, decongestioneremo questa “corsa alla dichiarazione di nullità” che sembra il modo più semplice per mettere le cose a posto, mentre è solo l’abuso istituzionalizzato di un rimedio raro ed eccezionale, che pretende di retrocedere – e costringe tutti a retrocedere – ad un “inizio” in cui tutto era cominciato – forse senza mai cominciare davvero. Se il nostro problema è il rapporto del matrimonio con la coscienza e con la storia, è troppo facile tornare soltanto al punto in cui la coscienza è riconosciuta “falsa” e la storia ancora inesistente”. Ma queste sono le categorie con cui ancora ragionano molti canonisti e larga parte dei vescovi. E queste sono le categorie che dobbiamo anzitutto sottoporre a revisione, perché distorcono tutto, allo stesso tempo gli oggetti e i soggetti: ossia tanto i coniugi come oggetti di esame quanto i canonisti e i vescovi come soggetti di tale esame. Vorrei dire al vescovo-canonista, se è lecito usare un linguaggio molto franco: fa la cosa giusta! Anzitutto lavora su di te, e cambia le categorie grazie alle quali ti inventi un mondo che non c’è e per colpa delle quali non riesci a vedere il mondo che c’è.

3. L’esito paralizzante da evitare

Ovviamente il “lavoro” che Amoris Laetitia ci chiede non può essere gettato solo sulle spalle die vescovi e dei canonisti, sebbene abbia nelle loro competenze e nella loro autorità una mediazione inaggirabile. Per evitare un effetto che chiamerei di “dispositivo di blocco”, e che genera sostanzialmente una paralisi ecclesiale, nella quale viene considerato “autorizzato e giustificato” solo ciò che si faceva prima di AL, occorre riferirsi a due “fari” che teologi e coniugi possono mettere sotto la lente e studiare con cura appassionata:

a) Il primo è la assunzione del vero nucleo di AL, che è il supoeramneto di una lettura primariamente giuridica del matrimonio. Una lettura escatologica del matrimonio ne colloca il significato e la verità non in un “inizio formale”, ma in un “compimento promesso e finale”. Questa bella traduzione della dottrina matrimoniale in un “processo” implica una profonda revisione di categorie che “assicurano” il sacramento solo in un “punto iniziale già compiuto”. Che il vincolo abbia una storia è una verità escatologica, che il diritto canonico attuale non riesce a riconoscere a sufficienza e che deve fare in modo di poter onorare, con nuove categorie.

b) Proprio questa prima assunzione ne implica una seconda, di carattere tecnico-giudico, e che implica non soltanto una “riforma del diritto processuale”, ma dello stesso “diritto sostanziale”. E qui vorrei che i canonisti e i vescovi ricordassero che un buon esperto di leggi, anche di leggi canoniche, deve sempre ragionare “de lege condita”, ma anche “de lege condenda”. AL ci chiede di camminare in una nuova direzione. Se il diritto è un ostacolo, lo si cambia, per poter camminare e per poter riconoscere che la coscienza degli sposi e la loro storia di vita reale è capace di cambiare la comunità e la percezione pubblica che la Chiesa ha di sé. Se invece si chiude il dettato di AL nelle spire della sola “lex condita”, si ottiene l’effetto paradossale di escludere per principio proprio ciò che la realtà e il magistero recente ci chiede di saper onorare. E ce lo chiede in modo esigente, anche a costo di mettere in discussione le più radicate tra le nostre abitudini giuridiche e pastorali. E non credo che il modo migliore di trattare il cavallo di razza che è AL sia quello addomesticarlo e intristirlo nel piccolo recinto delle categorie giuridiche ottocentesche.

 

Share