E’ possibile condividere la cena del Signore?


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A MILANO, sabato 25 novembre 2017, si è tenuto l’incontro sul tema: E’ possibile condividere la cena del Signore? Speranze e attese per una mensa condivisa nel “fare memoria” e testimoniare insieme l’Evangelo, organizzato da diverse associazioni ecclesiali, cui ho partecipato insieme a Paolo Ricca. Riporto qui di seguito il testo rielaborato del mio intervento

 E’ possibile condividere la cena del Signore?

A noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua resurrezione dai morti”  (At 10, 41b)

1. Premesse

Ci sono tradizioni diverse, che si riferiscono tutte alla “cena del Signore” e alla “frazione del pane” e che vivono questa celebrazione, sia pure in modo differenziato, ma come fonte e culmine della comunione ecclesiale. Il paradosso è che, proprio nel cuore della comunione, i cristiani sperimentino la divisione e la ostilità.

Sappiamo bene che le diverse tradizioni cristiane, dopo incomprensioni, lotte, divisioni anche sanguinose, silenzi e indifferenze, da alcuni decenni lavorano anche per recuperare la comunione perduta. Non è affatto scandaloso che la ricerca della comunione voglia avere un rapporto con la celebrazione della santa cena, della santa messa, della sacra liturgia. E non dovrebbe essere considerata, questa, soltanto come la “massima ambizione”: non è vero, infatti, che la “comunione eucaristica” si collochi soltanto in fondo al percorso, come il premio finale della ricostruita comunione. No, deve essere vero anche il contrario. Può essere vero che tradizioni diverse, linguaggi diversi, immaginari diversi, che si riconoscono tutti reciprocamente nel battesimo in nome di Gesù Cristo, possano rilanciare la loro comunione a partire” dalla cena del Signore. Il fatto che la messa e la liturgia possano situarsi non alla fine, ma all’inizio, dovrebbe essere una possibilità da riscoprire e da valorizzare. Come un modo di iniziare, e di lasciarsi iniziare, e non come un modo di finire.

Ciò non toglie, tuttavia, che il chiarimento necessario – lo dico non per arrivare, ma almeno per proseguire – riguarderà almeno tre livelli di esperienza della liturgia eucaristica, su cui le tradizioni si sono altamente differenziate e che vorrei così schematizzare:

a) Il Corpo di Cristo – sacramentale ed ecclesiale – per come viene compreso e vissuto;

b) La struttura della celebrazione e la sua relazione con il “sacrificio di Cristo”;

c) I ministeri dotati di autorità e il loro riconoscimento reciproco tra le diverse confessioni.

Ciò che su questi tre livelli possiamo identificare come problematico, o come inaccettabile, non dovrebbe essere assolutamente risolto in anticipo, quasi come una condicio sine qua non: il vero discrimine non è questo “previo accordo dottrinale” che sarebbe in grado di abilitare ad una prassi liturgica comune. Piuttosto, come singolare “preambolo”, dovrebbe maturare nelle diverse confessioni la disponibilità a leggere le differenze non come “mancanze di comunione”, ma come “differenze nella comunione”. Diverse teorie sulla presenza, diverse comprensioni del rapporto col sacrificio e diversi modi di esercitare l’autorità sono stati percepiti, nella storia, come gravi motivi di “rottura della comunione”. Ognuno si è sentito negato dall’altro. Oggi – nella reciproca disponibilità, che costa sempre tanto a tutte le parti in causa – queste stesse differenze possono diventare motivi di “ricchezza nella comunione”.

Ciò che cambia è, anzitutto, la percezione dell’altro e del suo mondo. Per entrare in sintonia, per percepire l’altro nella sua ricchezza, per costruire percorsi reali di comunione, non dobbiamo soltanto preoccuparci di tradurre le tradizioni altrui nelle nostre categorie, e le nostre in quelle altrui, ma di “impararne la lingua, con tutte le sue regole”. Per usare la bella immagine proposta da George Lindbeck: si fa ecumenismo non “traducendo pensieri e concetti differenti”, ma “imparando a parlare lingue diverse”. Per farlo non dobbiamo solo studiarle, ma dobbiamo anche praticarle. La pratica comune – della preghiera e della liturgia, della fede e della carità – è una delle condizioni per sperare e per fare la comunione. Non si tratta, dunque, di inventare una “messa ecumenica”, ma di riconoscere che la eucaristia, la santa cena, la santa liturgia è, in sé, visceralmente, una questione di unità, una questione ecumenica.

2. Una auto-riflessione cattolica, tra occidente e oriente

Vorrei approfondire in particolare alcuni aspetti decisivi dello sviluppo post-conciliare. Mettendo anzitutto in luce il profondo mutamento della comprensione della “azione rituale” – come linguaggio comune a tutta la Chiesa – e della forma di “partecipazione” (actuosa participatio) che trasforma la comprensione della liturgia e della eucaristia, recuperando il profilo ecclesiologico del sacramento. Ciò determina le sequenti preziose conseguenze, stabilite autorevolmente dalla Costituzione liturgica del Concilio Vaticano II:

a) Il recupero delle molteplici forme della “presenza” di Cristo nella liturgia (SC 7)

Non solo “presenza reale”, ma presenza nel ministro della eucaristia, presenza nella parola proclamata, presenza nei sacramenti, presenza nella assemblea radunata per la lode e per la preghiera. Questo ampliamento di “forme” rende più ampia e articolata la comunione.

b) La ristrutturazione e riqualificazione della “liturgia della parola” (SC 24, 35)

Tra queste forme, la esperienza della “parola proclamata” è riportata al centro della tradizione liturgica cattolica. Questo grande arricchimento di testi e di sequenze rituali richiede una profonda conversione pastorale e spirituale, che ha un impatto assai significativo anche sulla “intelligenza teologica” della comunione eucaristica.

c) La contestualizzazione della “consacrazione” al centro della preghiera eucaristica

Il “fare memoria” della eucaristia non si limita soltanto alle “parole della consacrazione”, non è solo ripetizione puntuale di un atto, ma è ripresa complessiva di una “azione” del Signore. Resa possibile dalla “parola proclamata”, restituita come parola pregata nella anafora eucaristica, al cui interno sono ripetute come narrazione istitutiva le parole dell’ultima cena, e compiuta con il rito di comunione, che è frazione del pane e partecipazione all’unico pane spezzato e all’unico calice condiviso. Alle “parole” della istituzione non cirrisponde soltanto la “consacrazione”, ma la sequenza “anafora-comunione”.

d) La sequenza “preghiera-rito” come successione tra “anafora-comunione”

Questa ricomprensione più ampia dell’azione eucaristica – che passa dalla logica essenziale del rapporto secco di una atto inteso come relazione secca tra forma-materia-ministro alla sequenza rituale intesa come “azione di Cristo e della Chiesa” tra parola, preghiera e rito – sposta la attenzione dalla esclusiva della consacrazione, con la inevitabile marginalizzazione della comunione e della parola proclamata, alla correlazione tra parola e azione, tra anafora e comunione.

e) il recupero della “partecipazione più perfetta” mediante la comunione al pane e al calice” (più che “sotto le due specie”).

Nell’ambito delle “richieste di riforma” che il Concilio Vaticano II esplicita circa la eucaristia (SC 50-57) si auspica, in SC 55, il recupero della comunione all’unico pane spezzato e all’unico calice condiviso. Il rapporto tra pane, vino, corpo e sangue può essere pensato con il concetto di “specie”, ma per essere celebrato ha bisogno di categorie meno essenzialistiche. Il segno, per determinare una “partecipazione più perfetta”, ha bisogno di categorie concettuali meno limitate. Il contatto rituale non è identico al concetto teologico: può essere certo più povero, ma può rivelarsi anche più ricco.

3. Conseguenze sui tre punti considerati

a) La presenza del Corpo di Cristo nella eucaristia è, insieme, sacramentale ed ecclesiale. Anzi, proprio il riconoscimento di Tommaso d’Aquino del significato di “unità della Chiesa” come “effetto principale” della eucaristia resta una pietra miliare della tradizione, anche nel momento in cui la stessa tradizione si irrigidiva in una lettura della “consacrazione” come essenza, rispetto a cui tutto il resto sarebbe riduttivamente solo “usus” del sacramento. Noi abbiamo oggi il compito di interpretare in modo più ampio questa relazione tra sacramento e Chiesa, che la tradizione attesta con argomentazioni talora troppo fragili.

b) Questo recupero della “unità della Chiesa” come contenuto della eucaristia conduce ad una ricomprensione della “sequenza complessiva” – parola-anafora-comunione – che sostituisce la centralità “essenziale” della consacrazione. Potremmo dire che la eucaristia ha (e deve avere) una logica “più che necessaria” e “sovraessenziale”. Alla distinzione tra “essenza/uso”, che rivolge la attenzione soltanto alla formula, materia, ministro, si sostituisce la articolazione tra forma rituale, materia simbolica e relazione tra presidenza/ministeri/assemblea. La “azione di Gesù” non può essere ridotta ad un solo “atto”.

c) Il mutamento di prospettiva determina, e in certo modo presuppone, un mutamento nella concezione del ministero. Se la liturgia è anzitutto azione di Cristo e della Chiesa, che liturgicamente comporta una “actuosa participatio” di tutto il popolo di Dio, tale ricomprensione rilegge il ruolo del presbitero/vescovo come “presidenza di una celebrazione della assemblea” e non come “celebrante”. Sgravando dalle spalle del presidente la responsabilità della celebrazione, questa lettura può rendere possibile, immediatamente anche in campo cattolico, il cammino verso il riconoscimento della “comunione nelle differenze”, piuttosto che della “scomunica delle differenze”.

4. Apartheid da superare e gioiosa/faticosa tolleranza delle differenze

Se allarghiamo lo sguardo, credo possiamo riconoscere che la radice più feconda della tolleranza tardo-moderna non è la indifferenza per le differenze, ma la non-indifferenza per le differenze. Come ha riconosciuto anche Paolo Ricca, nel suo libro sulla Ultima cena che è Prima, nel momento in cui la “ospitalità eucaristica” potrà essere formalmente consentita, dovremo esercitare in modo nuovo una forma di tolleranza direi interessata. Vorrei fare un esempio sulla comprensione diversa della “presenza del Signore crocifisso e risorto” nella comunità eucaristica. Non voglio qui parlare delle “diverse dottrine”, ma delle “diverse pratiche” che sono scaturite – o che forse hanno ispirato – diverse dottrine.

Che ne è, in particolare, nel pane “consacrato” dopo la fine della cena? Qui, proprio a livello della pratica diversa, saranno messe alla prova le nostre comprensioni e le nostre tolleranze. Provo a farne una descrizione per “ambiti confessionali”:

a) Il cristiano cattolico potrà certamente continuare a “custodire” le particole consacrate e potrà continuare a riporle nel tabernacolo, farle oggetto di adorazione e persino partecipare alle 40 ore, alla adorazione notturna…ma dovrà rispettare la possibilità che altri cristiani, in un cammino di vera comunione, possano astenersi dal compiere questi atti, senza per questo negare la presenza del Signore nella eucaristia.

b) Il cristiano evangelico potrà certamente continuare ad abitare la santa cena con il canto e con la predicazione, con il sermone e con la carità, e potrà riconoscere il Signore presente nel momento in cui il pane spezzato e il calice condiviso vengono partecipati ad ogni membro della assemblea. Ma dovrà rispettare come una possibilità diversa che altri cristiani possano abitare le aula eucaristica anche in assenza di celebrazione, per sostare in preghiera o per adorare il Santissimo Sacramento.

Una Chiesa veramente ospitale – ossia che viva la coscienza di “essere ospitata” dal suo Signore – potrà scoprire in queste differenze una grande ricchezza reciproca. Senza che l’uno pregiudichi gli altri e senza che nessuno debba sentirsi squalificato dal giudizio di una esperienza e di una tradizione diversa. L’unità fondamentale sul Signore che viene in mezzo ai suoi nella Parola e nel Sacramento può essere il principio radicale di una feconda reciproca ospitalità. Per continuare a “mangiare e bere con lui, per lui e in lui”. O, per parafrasare Agostino, per riconoscere che nella comunione eucaristica facciamo tutti la esperienza toccante in cui il Signore “prega per noi, prega in noi ed è pregato da noi”, come unico Sacerdote, come Capo del Corpo e come Figlio di Dio. Se sapremo muoverci in questa direzione, esigente ma promettente, non tarderemo a trovarci intorno alla stessa mensa, con lo stesso Signore, nello stesso Spirito, verso il medesimo Padre.

Appendice: sette tesi sulla “ospitalità eucaristica”

Sul tema che abbiamo affrontato, Paolo Ricca ha giustamente ricordato un importante documento del 2003, frutto del lavoro ecumenico di tre istituti tedeschi, evangelici e cattolici

(http://www.dehoniane.it:9080/komodo/trunk/webapp/web/files/riviste/archivio/02/200311351a.htm).

Riporto qui di seguito le 7 tesi elaborate dal documento, tralasciando la ampia spiegazione che segue ogni tesi e che può essere letta nella versione integrale del documento. Decisiva mi pare la prima tesi, che, invertendo l’onere della prova, cambia l’orizzonte della argomentazione teologica classica, maturata in un contesto di radicale conflitto.

Tesi 1

Occorre motivare non l’ammissione dei cristiani battezzati alla cena/eucaristia comune, bensì il suo rifiuto.

Tesi 2

La comunione ecumenica vissuta localmente e la mancanza di comunione alla cena/eucaristia sono realtà contraddittorie. Ciò indebolisce la testimonianza affidata alle Chiese e le rende non credibili di fronte alle sfide poste dalla società

Tesi 3

In molti casi eccezionali, ai singoli viene permessa già oggi la comunione eucaristica.

Tesi 4

Il battesimo è la porta d’ingresso alla comunione della Chiesa, al corpo di Cristo, che si ricostituisce continuamente nella cena/eucaristia.

Tesi 5

Gesù Cristo invita alla cena/eucaristia. Egli è donatore e dono. La Chiesa rivolge l’invito solo nel suo nome e per suo incarico. Ciò non può avvenire in modo indiscriminato, ma deve corrispondere alla volontà di Gesù.

Tesi 6

La comunione eucaristica oltrepassa la comunione ecclesiale.

Tesi 7

La Chiesa vive come comunità nell’annuncio, nel culto e nel servizio al mondo. La comunione ecclesiale presuppone queste azioni e una comune concezione di fondo, ma non una determinata configurazione storica.

Tesi 7.1

Comunione nella fede: le diverse rappresentazioni della testimonianza ecclesiale e dell’interpretazione normativa della fede comune in Gesù Cristo come salvezza del mondo non sono necessariamente tali da dividere la Chiesa.

Tesi 7.2

Comunione nella comprensione della cena/eucaristia: i dialoghi ecumenici hanno realizzato un profondo accordo sui temi tradizionalmente controversi in materia di comprensione della cena/eucaristia. Perciò, le differenze che ancora restano non impediscono una comune celebrazione della cena/eucaristia.

Tesi 7.3

Comunione nella comprensione del ministero: nonostante le differenze che ancora esistono sulla questione del ministero, oggi si è realizzata sugli elementi fondamentali una convergenza che rende possibile l’ospitalità eucaristica.

Tesi 7.4

Comunione nel servizio al mondo: diaconia, comunione ed eucaristia si condizionano a vicenda.

 

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