Diritto al culto e rinuncia al culto. Una questione bruciante per le “piaghe” della Chiesa contagiata


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Da quasi due secoli, non solo per la vita civile, ma anche per la vita di fede, la dimensione del culto non è più un concetto ovvio. Non può essere trattato né semplicemente come “compito morale” o come “adempimento giuridico”, né come “dimensione spirituale”. Nei primi decenni del XIX secolo Antonio Rosmini in Italia e Prosper Gueranger in Francia hanno cercato di “ripensare la Chiesa” proprio in termini di culto. Nel culto si è cercata una “ripartenza ecclesiale” dopo Napoleone. Ma senza rifiutare le acquisizioni moderne. Il culto che “rinasce” nella Europa dopo Napoleone non è semplicemente il segno della “restaurazione”. E’ anche un modo della assimilazione della modernità. Sia nei termini del “superamento della divisione del corpo della Chiesa nell’atto di culto” (Rosmini), sia nella scoperta che la prima autorità nella Chiesa non è il Papa o la istituzione, ma la elementare potenza della preghiera rituale (Guéranger). Il culto non “rinasce” solo in un certo conflitto con le istituzioni liberali, ma soprattutto in tensione con la autocoscienza ecclesiale. Sono le “piaghe della Chiesa” in gioco nel culto, non anzitutto i limiti dello Stato.

Può essere utile ritornare all’inizio del discorso contemporaneo sulla liturgia e sul culto per capire qualcosa di più del dissidio intra ed extra ecclesiale sul culto “messo in questione” dalla pandemia. Ed è notevole il fatto che, tra la prima ondata e la seconda ondata, vi sia una profonda differenza di reazioni. Se la “chiusura” di marzo ha sollevato in Italia, quasi subito, anche nei più saggi, qualche protesta argomentata in termini di “diritto della Chiesa al culto” – come se in gioco vi fosse esclusivamente una questione di libertà – ora, nella seconda ondata, queste parole riemergono altrove  – in Francia o in Inghilterra – mentre la Chiesa italiana sembra silenziosa. Forse perché, non vedendo, almeno per ora, minacciata la libertà, non si trova coinvolta in una vera questione? Dovremmo dedurne che il culto è rilevante ecclesialmente solo come “esercizio di libertà”? Le riflessioni che su questo blog sono già state condotte da Marco Gallo e da Mons. Derio Olivero sollevano una questione bruciante, che vorrei provare a sviluppare un poco.

Qui, a me pare, che non sia in gioco soltanto una questione di opportunità, che pure ha il suo rilievo e può essere oggetto di discussione, ma il rapporto tra la “libertà di culto”, il “dovere di culto” e il “mistero/dono del culto”. Vediamo di chiarire un poco queste delicate relazioni.

Se parliamo di libertà di culto, facilmente restiamo alla sua “forma pubblica”, affidata alla privatezza della credenza di ogni singolo e alla sua organizzazione formale. La insistenza sul “diritto di culto” non è semplicemente la “difesa di una diritto istituzionale”, ma il trionfo di una lettura privata del culto. Potremmo dire che sentire “minacciata la libertà di culto” risponde molto spesso al convergere di una lettura meramente politica della Chiesa che coincide con una privatizzazione individuale della appartenenza.

Invece il culto come “dovere”, come “officium”, non si risolve semplicemente nella prima posizione. Esso scava, nella biografia dei soggetti, e nella struttura delle Chiese, una obbligazione più intensa sia in termini di testimonianza, sia in termini di interiorizzazione. Se può capitare di veder difeso il “diritto di culto” anche da chi non mette mai piede in Chiesa – il che non è detto che debba sempre essere giudicato una ipocrisia – sentire il dovere di “celebrare la fede” diventa talora un meccanismo cieco di ripetizione di gesti e di formule che “non sentono ragione” e “non conoscono condizioni”. La incondizionatezza del dovere, di per sè ammiravole, deve però caricare su di sé il peso della contingenza. E la contingenza di una pandemia non è variabile indifferente.

Ma vi è una esperienza ancora più radicale e più elementare: il culto come “dono di grazia” è ciò che la teologia ha riscoperto negli ultimi 200 anni. Ed è evidente che questa riscoperta relativizza sia i discorsi in termini di libertà, sia i discorsi in termini di dovere. Non li supera, evidentemente: perché rimane sempre vero che la condizione politica di esercizio del culto e la condizione ecclesiale di autorevolezza del culto non sono variabili secondarie. Ma il senso del culto cristiano riguadagna una sua più alta profondità nel momento in cui si ricollega con la esperienza elementare degli uomini e delle donne credenti. Questa è la sua benedetta qualità particolare: di esprimere la fede anzitutto con le caratteristiche primarie, semplici e “basse” della vita umana, che assume in modo speciale. Il rito, che interrompe, che esagera e che ripete la vita – così procede ogni rito  – raccoglie la comunità intorno a queste parole-gesti primordiali, costituisce il dono della identità più preziosa. Ed è anzitutto esercizio del tatto e dei sensi: ma proprio qui il “blocco sanitario” – con tutta la sua scrupolosa ragionevolezza – interferisce sul registro più elementare e più prezioso. Sospende il contatto per evitare il contagio.

Per questo il culto esige condizioni primarie che non possono essere gestite in modo troppo vistoso. Se ti raduni, ma non puoi veramente farlo perché devi tenere le distanze; se ti riconosci, ma non puoi veramente farlo, perché hai il volto coperto; se canti la lode, ma non puoi veramente farlo perché le norme speciali impediscono di “parlare a voce alta”…tutto questo può suggerire di sospendere l’atto, perché può esprimere la libertà, può esprimere il dovere, ma non riesce ad esprimere il dono.

Vi sono certo anche motivi “formali” che possono suggerire la sospensione delle celebrazioni per non “causare assembramenti”. Ma vi sono logiche diverse nelle differenti celebrazioni. Soprattutto una distinzione è fondamentale:

– ci sono riti di passaggio che possono “imporre” la propria logica “necessaria”: un funerale, o un matrimonio, hanno la dimensione inaggirabile e non rinviabile della necessità;

– i riti che non sono di passaggio – come la messa quotidiana o domenicale – hanno una logica gratuita in cui le “condizioni di minorità” possono consigliare di sospenderne la effettuazione nel luogo “pubblico” per spostarne altrove la dinamica.

Vi sono, dunque, ragioni diverse, che possono oggi suggerire un discernimento accurato delle condizioni di esercizio del culto. E potremmo stilare una sorta di “catalogo” delle ipotesi da considerare:

a) Se una legge eccezionale della autorità pubblica introduce divieti legati alle condizioni sanitarie, è evidente che la resistenza in termini di “diritto/dovere” deve essere considerata una extrema ratio molto rara e nella quale ci si assume il rischio di minare il bene comune;

b) Anche in assenza di leggi che esplicitamente pongono un divieto, ma in una condizione in cui “si raccomanda di non favorire gli assembramenti” una Chiesa può legittimamente porre la questione, a sé come agli altri, di quale sia il comportamento più responsabile e trarne conseguenze per sé;

c) Al di là di questa “logica ad extra” – che pure ha tutto il suo rilievo – la Chiesa non vanta solo un “diritto di esercizio del culto” verso lo Stato, ma deve considerare la rilevanza di tale atto per la propria identità.

d) La considerazione del proprio “dovere di culto” – con tutta la sua tradizionale serietà – non deve dimenticare la verità del “dono del culto”, la cui espressione ed esperienza dipende da “condizioni di fatto” che non possono essere sempre assicurate e non sempre sono sostituibili o surrogabili.

La riscoperta del culto cristiano è diventata, negli ultimi 200 anni, una forma di “ripartenza” dopo la crisi che ha inaugurato il mondo contemporaneo. Come ho detto, tale ripartenza ha significato un profondo ripensamento della “logica cultuale”, nella riscoperta dei suoi legami profondi con l’annuncio della parola e con la testimonianza della carità. Anche la Chiesa dei nostri giorni sa bene che aver pensato di “organizzare il culto in sicurezza” significa perdere una parte ingente del suo significato corporeo, relazionale, comunitario. Perché una comunità “che tiene l’altro a distanza” rischia di diventare la caricatura di se stessa. Non nella realtà della lotta alla pandemia, ma nella espressione della verità della fede. Per questo il culto può essere veramente esercitato dove la comunità non deve camuffarsi da riunione tra estranei. Nella sospensione di “luoghi comunitari ecclesiali”, la chiesa si ritrova a celebrare nei “luoghi comunitari familiari”, gli unici dove, quasi sempre, resta possibile il tatto e il contatto.

La coscienza che non si può celebrare a distanza è molto più chiara oggi di 6 mesi fa. Quando eravamo chiusi e senza celebrazioni da settimane, abbiamo desiderato ricominciare, anche con gravi limitazioni. Era ovvio ed era comprensibile, anche perché supponeva una relazione semplificata sia con il culto che con la pandemia. Oggi, mentre siamo forse destinati ad una nuova chiusura formale, vediamo i limiti ingenti di una “condizione di ripartenza” che è diventata “cronico distanziamento del culto”. La necessità è salva ma il gratuito è minato. Forse, proprio in questi casi, può risuonare quella parola forte, ma decisiva di quel santo del nostro tempo che è stato D. Bonheoffer, quando ha detto: “Ci sono casi in cui il miglior modo per difendere un diritto è quello di rinunciarvi”. Dove espressione ed esperienza non riescono – più o per il momento – ad adeguarsi, la rinuncia al culto “pubblico” diventa uno dei modi per custodirne la logica “comunitaria”.

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