Clausura sanitaria e apertura simbolica. Una chiesa aperta sulla città chiusa?


Assemblea-liturgica

La grande oscillazione di sentimenti – e di decisioni – che anche il Vicariato di Roma ha vissuto tra ieri e oggi, e che riguarda la opportunità di chiudere o di tenere aperte le chiese romane, corrisponde ad un comprensibile dissidio. Ossia quello tra l’esercizio della responsabilità nell’escludere ogni possibile causa di contagio, e la opportunità che il luogo di maggiore identità della “comunione ecclesiale” – la Chiesa come edificio – possa risultare chiuso, inaccessibile, lontano. La chiusura delle chiese lavora simbolicamente a diversi livelli. Può essere percepita come la “irrilevanza della fede” nella società minacciata dal morbo, può essere rielaborata puramente come questione funzionale e provvisoria, può essere patita, subita o contrastata, fino a obiezioni di coscienza che possono rasentare il codice penale. Ma non è affatto detto che questa alternativa secca (aperto/chiuso) non possa lasciare alcuno spazio per ragionevoli, anche se non scontate mediazioni. Credo che sia opportuno precisare, preliminarmente, che non è giusto proporre soluzioni “discrezionali”. Quando dico “discrezionali” intendo dire soluzioni che attribuiscono ai singoli soggetti implicati un troppo ampio margine di manovra, che, in quanto non controllabile metterebbe a rischio la salute propria e altrui. Nella riflessione che oggi si è sviluppata, nel dibattito sui media, è apparso evidente che passare dalle “chiese chiuse”  alle “chiese aperte”, anche se prive di celebrazioni, non risolve i problemi. Perché il luogo di culto, se reso accessibile ai fedeli, per quanto contingentati o controllati, diventa potenzialmente luogo di contagio, anche se le persone osservano 2, 3, 4 o 5 metri di distanza tra loro. E allora? Oggi ho letto un bel testo che Michele Nicoletti ha pubblicato su Facebook e che si intitola “Ontologia della distanza”. Vi si ricorda, con bella lucidità, che la unione e la intimità di cui abbiamo bisogno con il prossimo e con Dio vive anche di necessarie distanze. La lettura di quel testo mi ha convinto che sarebbe possibile, simbolicamente, anzitutto a Roma, o magari anche in altri luoghi nelle diverse diocesi, una apertura mirata di alcune chiese, che salvaguardi la distanza massima. Si tratterebbe di mantenere alcune chiese aperte, ma vuote di fedeli: questa apertura inaccessibile o chiusura a porte aperte, avrebbe il senso di lasciare in gioco, nell’orizzonte della clausura cittadina, una soglia, un varco, una fessura. Sarebbe un simbolo fragile e forte, una Chiesa di pietre che non sostituisce la Chiesa di carne che soffre, che lotta e che ama. Di un simbolo gratuito e folle abbiamo bisogno, anche qui, anche ora. Un poco come è accaduto in queste serate, in cui gli italiani hanno cantato dai balconi, alcune Chiese aperte a Roma, nelle quali l’accesso fosse vietato per sicurezza sanitaria, ma che restassero paradossalmente con le porte aperte, con l’aula illuminata, forse anche musicalmente vissute (magari con l’aiuto di un bravo organista). Questo segno avrebbe un valore esemplare e avrebbe una sua forza di resistenza e di anticipazione. “Io resto a casa” non vale per Dio. Dio non è mai a casa, è l’ovunque per eccellenza. Ma una “Domus Dei” stabilmente chiusa non parla di questa ubiquità. Semplicemente non parla. Tace. Sembra non avere nulla da dire. Ovviamente questa “operazione di apertura simbolica” avrebbe comunque bisogno di una organizzazione non casuale, con la presenza anche di forze dell’ordine a garanzia della sicurezza. Per questo non potrebbe essere realizzata se non in alcuni pochi casi. Ma forse potrebbe avere un senso proprio così, in questa sua forma necessariamente limitata, periferica ma non marginale. Sarebbe irresponsabile permettere l’accesso ai luoghi di culto come possibilità di contagio senza controllo., perché nessuno potrebbe esserne garante. E’ però possibile assicurare che la Chiesa edificio, rimanendo inaccessibile ai fedeli, non resti chiusa e si apra sulla città. Non una città che si apre rischiosamente alla Chiesa, ma una Chiesa che si apre simbolicamente  su una città chiusa.

Di recente sono venuto a sapere che quando muoiono i suoi grandi direttori, l’Orchestra del Teatro alla Scala esegue la Marcia Funebre della 3 sinfonia di Beethoven, e lo fa nel  teatro senza pubblico e con le porte aperte. Così è accaduto per C. M. Giulini e per C. Abbado. E’ un bel segno, forte e toccante. Nelle contingenze di questa crisi da pandemia, occorre alla Chiesa cattolica italiana e romana un supplemento d’anima. Chiudere le chiese è una misura di prudenza civile, del tutto raccomandabile. Ma fare eccezione per poche chiese, lasciandole inaccessibili, ma con le porte aperte e le luci accese, permette alla città, che è chiusa, di trovare un varco, di salvaguardare una  via di uscita. Senza correre per sé (o far correre agli altri) né il rischio di prendere il contagio, né il rischio di perdere il contatto. Una ontologia della presenza implica una sapienza delle distanze. Ma una ontologia della distanza sa di essere una componente insuperabile di ogni vera comunione. Alcune chiese aperte sulla città chiusa sono una possibilità prudente, ma forse anche una provocazione attesa, e un sogno mattutino, di cui tutti possono capire la ragione piena di speranza e la forza di una fede che non è solo religiosa.

 

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