Munera 3/2019 – Editoriale

Il puro e l’impuro appartengono alla dialettica della vita. La vita esige purezza. Un’acqua impura può mettere in serio pericolo la sopravvivenza degli organismi viventi. La grande scoperta del medico ungherese Ignác Fülöp Semmelweis, alla metà del XIX secolo, fu quella di una riduzione drastica della mortalità negli ospedali grazie all’atto banale di lavarsi le mani: di impuro, infatti, si muore.

E tuttavia anche di eccessiva purezza si muore. La vita diventa allora sterile. Gli antibiotici guariscono e uccidono: a un ciclo di antibiotici occorre farne seguire uno di probiotici, per ristabilire nell’organismo un’impurità buona. Quelli che un certo linguaggio religioso – tra il pudico e il puritano – definiva “atti impuri” stanno alla base della generazione della vita.

La vita vive di puro e di impuro. Necessita dell’uno e dell’altro: soltanto l’uno o soltanto l’altro – il puro e l’impuro in purezza – sono tendenzialmente mortiferi.

E tuttavia uno dei sogni ricorrenti dell’umanità è quello di annullare l’impuro: nascono così i miti igienici delle razze pure, delle società pure, della sconfitta definitiva del male, del peccato, delle malattie e – infine – della morte (l’impuro per eccellenza). Ogni opposizione – come osservava già Michel Foucault – si riduce allora a quella tra il normale (il puro) e il patologico (l’impuro).

L’ambizioso progetto di fermare il contagio che l’impuro porta con sé rende tuttavia sterile la vita: le culture e le società muoiono di troppa igiene.

Si tratta di uno schema che si ripete in molti ambiti della nostra vita sociale. In fondo, buona parte della gestione della questione del- le persone migranti risponde all’archetipo della lotta tra il puro e l’impuro: il problema – serio e giusto – di assicurare a tutti le migliori condizioni di vita diviene così quello di evitare ogni contatto e contaminazione in nome della purezza della nostra civiltà, cultura, etnia, religione…

Una delle più antiche istituzioni umane per la gestione dell’impuro è il carcere, al quale in questo numero di Munera è dedicato un intero dossier. Il carcere risponde – nei suoi presupposti e in buona parte nelle sue forme attuali – all’archetipo della quarantena: l’impuro è separato dal mondo umano al fine di evitare ogni ulteriore contagio.

Sappiamo tutti come la realtà dei fatti sia ben diversa e il carcere sia – al contrario – uno dei luoghi di contaminazione e di contagio per eccellenza. In carcere facilmente l’impuro si propaga e prevale. Senza considerare che privare un essere umano della libertà può significare intaccare pesantemente la sua identità e, infine, la sua stessa umanità: accade quando la detenzione si riduce a segregazione, a isolamento dal mondo dei presunti puri.

Piuttosto che continuare a sognare una separazione radicale dell’impuro, in vista della sua definitiva estinzione, occorrerebbe accettare che il puro e l’impuro fanno parte di noi: sono interni alla nostra società, alla nostra cultura, a ciascuno di noi. Perché fanno parte della logica e della dinamica della vita. Il puro e l’impuro stanno dentro di noi, l’Altro impuro è interno a noi stessi. Se l’impuro esterno a noi spaventa, è precisamente perché richiama e mette in contatto con l’impuro interno a ciascuno di noi, che non accettiamo e che vorremmo eliminare del tutto.

Accettare sé stessi, quanto in noi c’è di puro e di impuro, ecco quello che dovremmo fare. Allora nessuna impurità esterna potrà spaventarci al punto da progettarne la sua definitiva eliminazione (per affogamento o per detenzione, a seconda dei casi).

Una società vive grazie a un delicato equilibrio tra il puro e l’impuro, muore dell’uno o dell’altro allo stato puro.

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