Munera 1/2018 – Gianni Demichelis >> Il Land Grabbing

Assefa mi racconta con pacatezza e occhi rassegnati che gli è stato sottratto un piccolo appezzamento di terra di sua proprietà in nome di un interesse nazionale superiore. In verità, Assefa non si dà pace del fatto che un piccolo contadino di un paese agricolo come l’Etiopia debba interrompere il proprio modo di vivere, ereditato da innumerevoli generazioni, per consentire a qualcun altro, dall’altra parte del mondo, di mantenere un determinato profilo alimentare o, talvolta, addirittura di sprecare cibo, come è tipico di molti paesi in Occidente.

Il fenomeno del cosiddetto land grabbing, con le sue molteplici sfaccettature di carattere etico, economico, politico e sociale, si può riassumere in fondo nella genuina domanda di Assefa, nel suo disorientamento esistenziale e nel malessere di famiglie rimosse da piccoli appezzamenti di terra coltivabile ereditati per diritto di proprietà o, più spesso, per un uso consuetudinario protratto e divenuti quindi una fonte di sussistenza insostituibile e inalienabile.

La locuzione inglese indica letteralmente l’attività di “accaparramento” di ampie aree coltivabili da parte di privati (spesso speculatori) o di enti governativi stranieri, finalizzata sia a ottenere un certo livello di sicurezza alimentare, sia a consentire la disponibilità di prodotti a basso costo e svincolati dalla stagionalità dei cicli naturali per i paesi sviluppati o per potenze demografiche in rapida crescita.

Il fenomeno ha assunto dinamiche e dimensioni impressionanti non solo in seguito alla crescita periodica dei prezzi dei prodotti agricoli (in particolare a partire dal 2007 e 2008), influenzata anche dalle situazioni endemiche di scarsità di raccolto, ma anche per l’opportunità di nuove fonti speculative di reddito.

In particolare, l’Africa subsahariana rappresenta la principale area di destinazione degli investimenti, speculativi e non, in acquisizioni terriere; si calcola, infatti, che la crescita della popolazione mondiale, l’urbanizzazione e l’incremento dei redditi in vari paesi contribuiscano a una crescita costante della domanda di beni agricoli alimentari. Una stima conservativa (basata su scenari né estremi, né sfavorevoli) evidenzia un ammontare di 6 milioni di ettari di terra coltivabile aggiuntivi che, ogni anno fino al 2030, verranno messi a coltura: due terzi di tali aree si troveranno nell’Africa sub-sahariana e, in parte minore, in America Latina.

I paesi dell’Africa Orientale quali Etiopia, Kenya e Tanzania sono da tempo protagonisti di un numero crescente di transazioni fondiarie. Il motivo dell’alto numero di transazioni è legato sia all’oggettiva abbondanza di terre, sia al fenomeno definito dalla World Bank come weak land governance. L’espressione descrive una situazione in cui i diritti di proprietà non sono registrati o conservati, quindi i legittimi diritti dei possessori sono obiettivamente difficili da dimostrare e le istituzioni locali spesso non proteggono la vulnerabilità delle comunità indigene.

È proprio in tale contesto che ha avuto modo di svilupparsi la cosiddetta rush for land, raggiungendo nel 2016 la cifra di 23,8 milioni di ettari oggetto di transazione verso entità private o pubbliche estere (come parametro comparativo va ricordato che l’Italia si estende su una superficie di circa 31 milioni di ettari).

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