Se Francesco non è Bismarck: Vaticano I e Vaticano II, in sequenza


concilio-vaticano-I

Non vi è dubbio che un papa che chiede obbedienza non dovrebbe fare notizia. Che chieda obbedienza non a sé, ma ad un Concilio, è un “luogo comune” meno classico. Questo accade perché facciamo fatica a distinguere tra Papa e Concilio. E uno dei motivi di questa nostra difficoltà sta proprio nel Concilio Vaticano I. Perciò l’imbarazzo è intrinseco alla cosa stessa. Un papa che chiede l’obbedienza ad un Concilio, dopo il Vaticano I, entra quasi in contraddizione con se stesso. E questo non dipende da lui – che del Vaticano II è “figlio”  – ma dalla storia a cui appartiene insieme a tutti noi.

Che poi, a questa pressante richiesta, si alleghi un esempio del passato è del tutto plausibile. Ma proprio la complessità di questo esempio – e ancor più la icastica definizione di una sua rovinosa conseguenza – pone alcuni problemi di interpretazione che possono essere oggetto di un piccolo chiarimento.

1. Recepire un Concilio non è cosa semplice

La recezione di un Concilio è sempre una fatto complesso, che dipende da molteplici fattori. La grande assise del Vaticano I ha prodotto due grandi documenti – sulla rivelazione e sul papa – che sono entrati nella tradizione ecclesiale cattolica e l’hanno orientata profondamente. In questo processo, però, non solo la “disobbedienza” al Vaticano I, ma anche la obbedienza può essere problematica.

2. Magistero negativo e positivo: luci e ombre

Faccio subito un esempio a proposito del Vaticano II. Che cosa significa che il Vaticano II ha ampliato il concetto di magistero? Che ha rinunciato alla logica classica del “magistero negativo” – ossia alla logica delle proposizioni condannate – e ha invece scelto di lavorare solo sul piano del “magistero positivo”? Uno degli effetti – non voluti in principio – è stato il progressivo ampliamento della parola magisteriale, fino a farle coprire l’intera realtà ecclesiale. Questo è un fenomeno ingente e non poco preoccupante. Se obbedire al Vaticano II significa chiedere al magistero di parlare autorevolmente e esaustivamente su ogni tema, è chiaro che la discussione sui “limiti della obbedienza” diventerebbe del tutto naturale. Ed è stato papa Francesco, nei primi numeri di Amoris Laetitia, a significare, nel modo più chiaro, che il magistero non deve risolvere tutti i problemi. Affermazione storica importante, a suo modo classica, ma che dopo il Vaticano II è quasi difficile da capire, perché suppone una “articolazione della autorità” che il Vaticano I sembra (sembra) aver negato.

3. Una obbedienza strumentale

Analogamente, 150 anni fa, una obbedienza sorprendente al Vaticano I è venuta dal Cancelliere tedesco O. von Bismarck. Che lesse le deliberazioni di quel Concilio sulle “competenze papali” come una riduzione dei vescovi a funzionari periferici dell’unica autorità centrale. Bismarck obbediva davvero al Concilio? Le precisazioni successive – dei vescovi tedeschi e di papa Pio IX – mostrarono che quella interpretazione della infallibilità e della giurisdizione papale, che la intendeva come quella di un “sovrano assoluto”, erano del tutto fuorvianti. Il papa non aveva assorbito la giurisdizione episcopale dei singoli vescovi, che non erano affatto ridotti a “strumenti” delle mani del papa. In quanto Vescovo di Roma esercitava la funzione papale, senza sostituire ogni vescovo nella propria autorità locale. La lettura strumentale da parte di Bismarck segnalava, tuttavia, una possibile deriva: la riduzione al papa di tutta la autorità nella Chiesa. Cosa che, quasi un secolo dopo, il Vaticano II ha provveduto a rielaborare con grande cura.

4. Che cosa significa davvero “obbedire al Vaticano II”?

Ecco allora il punto. La obbedienza al Vaticano II è la acquisizione, strutturale, della sua “indole pastorale”. Ossia di una differenza tra “sostanza della tradizione” e “formulazione del suo rivestimento”. La grande stagione inaugurata dal Concilio Vaticano II – della quale siamo soltanto all’inizio – passa attraverso un profondo ripensamento delle “forme istituzionali” in rapporto alla “sostanza della tradizione”. Questo implica, inevitabilmente, una presa di congedo da forme anche molto antiche, ma in tensione con ciò che del Vangelo è elemento nutriente e formativo. Esemplare, oltre alla riforma liturgica, è la trasformazione del ministero. Proprio di recente, come frutto luminoso di questo cammino, si è aggiunto al passo di Paolo VI – che con Ministeria quaedam ha ripensato gli “ordini minori”, modificandone profondamente la comprensione e la articolazione – il passo di Francesco, che ha aperto lettorato e accolitato alla autorità delle donne. Questo non è affatto scandaloso. E’ piuttosto la riforma di un assetto istituzionale che non permetteva alla “sostanza nutriente” di toccare la vita della Chiesa.

5. Obbedire al Vaticano II significa lasciare “dietro di sé” le pur importanti impronte del Vaticano I.

La obbedienza alla tradizione assomiglia alla obbedienza in una famiglia. Si porta rispetto anche per i bisnonni o per i trisavoli, ma non si deve loro la medesima obbedienza che si ha verso i genitori. Anzi, può accadere che, proprio a causa del mutamento, tra bisnonni e padri cambino le priorità, cambino i linguaggi, muti la esperienza. Non a caso, quando Giovanni XXIII parlò per la prima volta di un “nuovo Concilio”, alcuni lo intesero come la “continuazione del Vaticano I”. La volontà che fosse un “altro Concilio” significa che non tutto ciò che il Vaticano I ha affermato possa valere, sic et simpliciter, qui e ora, per tutti noi. Così Dei Verbum ha riletto Dei Filius, e Lumen Gentium ha dato contesto, profondità e spessore a Pastor Aeternus. Come un tempo di scontro col mondo aveva fatto ricorso ad una polarizzazione autorevole sul papa, e ad una figura di rapporto tra ragione e fede, un tempo di incontro e di misericordia puntava sulla rielaborazione della figura di Parola e di Chiesa. Le orme del Vaticano I non sono mai smentite, ma sono ricontestualizzate, riorientate e riformulate. La tradizione, camminando, non tiene il piede in due staffe, ma procede oltre, rielabora e affina.

6. La giusta domanda di “fedeltà al Vaticano II”

La tradizione, che è un giardino da coltivare, può far fiorire l’idea che le donne siano riconosciute soggetti di autorità. Così potremmo scoprire che alcuni degli elementi che hanno portato alcuni, 150 anni fa, a “non accettare” il Vaticano I, oggi, alla luce del Vaticano II, possono essere diventati patrimonio comune. Alla immagine della “piramide capovolta”, di cui siamo grati a Francesco per la limpida formulazione, potremmo geometricamente aggiungere che si può comprendere come il riconoscimento del “servizio alla Chiesa” possa essere attribuito anche alle donne. Che pertanto possono aspirare a “scendere” in basso, verso il vertice. Un poco scandaloso è invece che nella Chiesa del Concilio Vaticano II, proprio quella che vuole essere pienamente fedele al suo magistero pastorale, il segno dei tempi della donna nello spazio pubblico e la riconciliazione con le comunità cristiane colpite da scomunica possa essere considerato non solo come cosa secondaria, ma addirittura come cosa pericolosa.

 7. Il preside e il turpiloquio

 Un bravo preside, che ho conosciuto nel mio unico anno di insegnamento nelle scuole medie inferiori, aveva solo un piccolo difetto: molto spesso, durante i collegi docenti, partiva per la tangente e parlava ai docenti “contro il turpiloquio”, poiché in coscienza era profondamente scandalizzato dall’uso di “brutte parole” da parte dei docenti. Ma purtroppo, quando iniziava la sua tirata contro il parlar male – e la si vedeva arrivare già qualche secondo prima – si appassionava a tal punto, da cadere anche lui in un paradossale turpiloquio: non era davanti ai discenti, ma davanti ai docenti. Solo in questi casi la sua parola, che restava sempre molto alta e molto seria, doveva essere accuratamente separata dall’esempio, che non riusciva a seguirla. Debbo ammettere che resta comunque il Preside che mi ha dato di più.

Share