Schermi che schermano. Immaginari liturgici e bizzarrie quaresimali (di Mauro Festi)


quaresima2020

Ho ricevuto un lungo commento, che sviluppa alcune idee esposte nel mio ultimo post , portando un ricco contributo di osservazioni e di proposte sul tema. Ho chiesto all’autore, Mauro Festi, di dargli forma compiuta e ora lo pubblico molto volentieri. E’ un testo appassionato e profondo, che lancia uno sguardo acuto ed esigente sulla realtà pastorale, liturgica e personale che in questi giorni viviamo, comunitariamente ed individualmente, nel cammino quaresimale di avvicinamento alla Pasqua.  E l’esigenza, insuperabile, di essere “a tempo” e “in loco” rischia di risultare, almeno in parte,  fuori luogo e fuori tempo. La domanda che il testo fa emergere merita una attenta considerazione.

Il mercoledì delle ceneri è l’inizio della quaresima. L’esposizione al contagio da coronavirus ha fatto scegliere all’autorità civile la via prudenziale dell’impedimento di aggregazioni anche religiose, ai vescovi la via opportuna della responsabilità e credibilità civile.

La situazione è del tutto particolare: iniziare la quaresima senza celebrazione eucaristica, senza ceneri e senza domenica, ci fa sentire spogliati di qualcosa di fondamentale. Penso alle ceneri, e alla condizione di precarietà e di fragilità con cui ci rimettono in contatto. Ma oggi ne siamo già consapevoli, sappiamo tutti di essere esposti a qualcosa di indominabile che minaccia la nostra vita, al punto da agire sul nostro profondo, generando comportamenti irrazionali e sentimenti potenti, imponendo lontananza che si fa sospetto e isolamento, fino ad impedirci lucidità e a volte senno. E mi dico: forse quest’anno il segno è scalzato dalla realtà presente, di cui tutti avvertiamo il tocco. Forse l’assenza del segno può aprire all’esperienza di un’offerta di senso e di salvezza, proprio ora che non ci è necessario sforzarci per capirlo o per sintonizzare il nostro sentire. Percepiamo immediatamente la rilevanza sociale del male, e avvertiamo il suo trasformarsi in peccato, quando la sua opacità ci rende fosco il volto di Dio, inopportuno e minaccioso il volto dei fratelli, intoccabile il nostro. Questo contesto, così consistente, non sembra favorevole all’esperienza sacramentale della grazia che la liturgia custodisce per noi? Attendo indicazioni dai nostri pastori, e custodisco la domanda.

Avvertendo la sofferenza per questa unica, pur se particolare, domenica senza eucaristia, avverto anche l’istituirsi in me di un legame di solidarietà e di comunione fraterna, con i lontani fratelli e sorelle, amati, dell’Amazzonia, e con i vicini, tutti uniti in modo nuovo da un comune sentire, com-patire. Questa percezione mi rende impossibile assumere indiscriminatamente una postura relazionale anti-virus, se la sana prudenza si mescola con l’insana insorgenza di immaginari fuori luogo e fuori tempo… L’assenza del segno e il suo farsi porta aperta verso un oltre impensato…Giovanni XXIII riconobbe che si opponeva all’introduzione delle lingue vive nella liturgia chi non era mai uscito dal suo paese. Noi, con i nostri paesi sovrabbondanti di messe, siamo posti nel momento favorevole di “uscire dal nostro paese” restandoci ben piantati, non potendone uscire, ma potendo attivare una certa creatività ecclesiale e pastorale per custodire l’esperienza liturgica del venirci incontro di Dio.

Attendo. Mi interrogo sul come della partecipazione dei battezzati al sacerdozio di Cristo, che se nell’ordinarietà sembra u-topistica, senza luogo, nel tempo della doppia, quest’anno, straordinarietà quaresimale, può permetterci di percorrere tutti insieme quella inversione a “u” così marcata, da far cadere la lettera dal principio della parola, facendo spazio, offrendo luoghi. Navigo su internet, mi informo sulle proposte delle diocesi. Sento spegnermisi dentro quella fiamma di momento favorevole, quella percezione di grazia da non lasciar cadere invano. I più esortano i fedeli a unirsi spiritualmente alle celebrazioni che vescovi e preti avrebbero garantito, assicurando la validità della partecipazione alla celebrazione eucaristica tramite mezzi di comunicazione. Alcuni riscoprono il suono delle campane, rispolverando quelle della guerra, suonandole a peste. Qualcosa mi turba: sto sottovalutando la situazione, o la paura è diventata talmente irrazionale da condurci così fuori luogo e fuori tempo? Si compongono nuove preghiere su modelli passati, non come la liturgia ci insegna a pregare; atti di consacrazione ad una Madonna senza Figlio, in territori ancora immuni da contagio; i sagrati sono purificati con gli ostensori, e i patiti delle catene di preghiera imprecano contro i propri pastori, reclamando il diritto all’eucaristia, rimedio migliore al contagio, dalla quale forse, i contagiati, sarebbero rimasti troppo lontani, fuori dalla sua “aura” di potere sacrale che li avrebbe tutelati da un profano invadente, da respingere con decisione. Diritto all’eucaristia per chi ordinariamente ne ha accesso, ma non per chi ne sopporta ordinariamente la mancanza. Fuori tempo e fuori luogo…Ma poi, che cosa vuol dire unirsi spiritualmente? Quando celebriamo, non siamo sempre uniti dallo Spirito, proprio nell’atto liturgico che compiamo? Può davvero essere indifferente compierlo o no, per il sostanziarsi di tale com-unione? Si parla di validità, ma il problema non è venir meno all’osservanza di un precetto. A meno di accollare a Dio una funzione ispettrice a danno del suo popolo che mentre tenta di custodire la vita da lui creata e donata, non potrebbe che dimenarsi sotto un simile giogo. Abbiamo bisogno di esperienza di salvezza, non di essere scritti sulla lista dei buoni. Altrimenti perché i malati destinatari della nostra cura pastorale, dispensati dal precetto, è importante che partecipino del gesto eucaristico, fatto di relazioni, di pane e di parola, di gesti condivisi, dentro l’assemblea ecclesiale, nell’accesso loro proprio?

Gli schemi di preghiera in famiglia proposti da alcuni sembrano più liofilizzati verbosi di preghiera che celebrazioni “con sostanza”; gesti didascalici, che non abitano l’assenza del segno meglio del nudo venirci incontro della realtà, che almeno è vera. Al Concilio si parlò di verità del segno, anche in ambito eucaristico, per la comunione al pane e al vino. Ci si scontrò con gli immaginari apologetici e clericali, mascherati da insostenibili motivazioni di ordine pratico. Ma si riscoprì la verità del tempo, l’esposizione del giorno e della notte alla grazia pasquale, del risveglio e del lavoro, del vegliare e del dormire, dell’attesa e dell’incompiuto, della luce e del buio. Potremmo celebrare la liturgia delle ore! Certo, nelle case avremmo spazi, ministeri e atti ridotti, ma saremo assemblea convocata nella quale Cristo si fa presente, e alla quale desidera rivolgersi come Parola che prende carne nella nostra carne. Propongo, ma mi scontro con l’unica risposta: vale di più la messa guardata in tv, con la comunione spirituale garantita dal vescovo. Mi rassegno, ho bisogno che il Signore ricrei legami, spero riesca a farlo televisivamente, ma più mi espongo allo schermo, più sento che ci scherma, non dal virus, ma dal venirci incontro di Cristo che ci unisce a sé. Chi presiede fa finta di parlare al popolo, che non c’è. Insieme ai vescovi spesso ci sono cinque-sei concelebranti, e mi domando se la loro presenza, e l’assenza del popolo e dei ministeri dell’assemblea abbia a che fare davvero con una tutela dal contagio. Chissà se assorbendo in sé tutta l’assemblea, con i suoi ministeri, non si siano percepiti saturi. L’azione del fuoco sull’acqua che bolle in pentola non può nulla in ambiente saturo, ci insegnano. Una parte del sale non potrà sciogliersi per la cena, finirà nello scarico del lavandino. Fuori tempo e fuori luogo…La situazione sembra irreale: il rito è di Paolo VI, ma la mens tridentina. Me ne convinco guardando in serata su youtube altre celebrazioni, la maggior parte con presenza di soli ministri ordinati. Perché in una situazione straordinaria abbiamo ridotto non il numero dei partecipanti, ma ciò che dà sostanza alla partecipazione, presenza reale di una Chiesa tutta unita nel compiere il gesto liturgico? Difficile non sentirsi spettatori davanti alla tv, che rende imbarazzante e goffo tentare di inter-agire, se sei extra, non infra. Al più l’infrazione si è aperta a seminaristi, sacristi e suore. Sparisce anche l’ambone: restano il prete e l’altare, e l’etere che le trasmissioni attraversano senza abitare. Il vento che minaccia la fiamma, ormai flebile, sembra voler spazzar via dalla mia testa, dalla mia percezione, che quell’atto mi riguardava, avrebbe dovuto riguardarmi. Ma l’opzione per la credibilità civile si è bizzarramente coordinata con azioni di in-credibilità ecclesiale: senza l’in, cioè la possibilità di stare dentro offerta anche ai comuni fedeli, la polisemia del pro multis sembra proprio dissolversi, riducendosi al non. Non credibile perché non per tutti. A meno che l’in nostro favore giustifichi l’al posto nostro perché la differenza ontologica del ministro ordinato gli garantisca la tutela da un contatto di morte, di cui i fedeli sarebbero sprovvisti, come d’altronde anche il fedele testimone dell’Apocalisse lo è stato, di fronte al quale sta la nostra nudità e cecità, la nostra tiepidezza e miseria, e per questo egli parla e bussa, perché abitiamo con lui la reciprocità del gesto eucaristico.

Poco male: abbiamo ascoltato la messa, messa a posto la coscienza, coscientizzando, forse, di aver compiuto atti fuori luogo e fuori tempo. Nel segreto, qualcosa tiene ancora accesa quella fiamma benedetta. Indica strade da restaurare e brecce da riparare. Spinge a smuovere il fuoco da sotto, perché non si spenga il dono. Dona luce e forza per creare, in questo tempo e in questo luogo, le condizioni reali per il reale venirci incontro di Dio.

Mauro Festi

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