Riconoscere un segno dei tempi: l’autorità femminile in due testi di rilievo


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Con due testi di grande rilievo simbolico (un Motu Proprio e una Lettera), papa Francesco ha aperto alle donne il ministero ecclesiale. Per quanto si possa tentare di ridimensionare il fatto – e non è detto che non ci si riesca e sul piano teorico, e ancor più sul piano pratico – vorrei esaminare la questione sul piano strettamente sistematico. Ossia valutare le implicazioni “strutturali” di questa storica decisione. E non vale dire: lo si faceva già da 40 anni. Perché se e quando i fatti diventano norme, si istituzionalizzano e diventano principi di nuova elaborazione della tradizione, esplicitamente e formalmente. Il primo testo opera un piccolo cambiamento nel canone 230 del CJC, facendo cadere l’aggettivo “maschile” e quindi non riservando più lettorato e accolitato ai soli “viri”; il secondo testo fornisce le motivazioni teologiche del motu proprio. Vorrei qui limitarmi ad esaminare alcuni aspetti decisivi di queste argomentazioni.

a) Indole pastorale

L’orizzonte della decisione è ripetutamente riferito al Concilio Vaticano II e alla sua istanza di adattamento, di riforma, con la rilevanza da attribuire al popolo di Dio e alla sua autorità. La possibilità di superare la “riserva ai maschi” della autorità ecclesiale implica un concetto di fedeltà alla tradizione segnata dalla indole pastorale. Questa indole, infatti, pensa la tradizione come “sostanza di antica dottrina” e “formulazione del suo rivestimento”. Per restare fedeli alla sostanza non solo è possibile, ma talora è necessario riformularne il rivestimento. La “riserva maschile” di ogni autorità ecclesiale è dunque un elemento contingente, non necessario, della tradizione.

b) Il ripensamento del ministero

Di grande interesse appare il fenomeno che dopo il Concilio ha permesso di ripensare l'”ordine sacro”. Da una identificazione del ministero con gli ordini (maggiori e minori), si è passati ad una distinzione tra ordine e ministeri istituiti, con una ulteriore distinzione, all’interno dell’ordine, tra episcopato/presbiterato, da un lato, e diaconato, dall’altro. La introduzione di queste distinzioni è il frutto di un ripensamento della identità ecclesiale e del rapporto tra tutti i fedeli e i chierici. E’ evidente che si tratta di una elaborazione teorica che ha, sul piano pratico, un effetto ancora modesto. Gran parte dei lettori/accoliti sono, anche oggi, seminaristi o, al massimo, candidati al diaconato permanente. Diciamo così: il lessico conciliare si scontra, ancora duramente, con il canone classico, che pensa ogni grado del ministero in vista del classico compimento sacerdotale. Questa inerzia storica non è solo una zavorra.

c) Corresponsabilità dei non chierici

La corresponsabilità dei “non chierici” nella vita della chiesa appare ora chiaramente delineata. Ed assunta con decisione, estendendo la identità dei “non chierici” a “omnis utriusque sexus fidelis”: se la categoria di “chierico” resta legata, per ora integralmente, al sesso maschile – non escludendo una ulteriore approfondimento sul grado del diaconato –  da ora i non chierici corresponsabili vengono pensati senza differenza di genere. Questo è un punto di non ritorno decisivo. Ed è singolare qui un duplice fatto: che il papa scriva una Lettera alla Congregazione della Dottrina della fede, quasi a sottolineare la autorevolezza dell’intervento; e che il papa citi, in un passaggio decisivo, riferendosi al Sinodo sull Amazzonia, non il suo documento (Querida Amazonia) ma quello sinodale. In effetti la domanda esplicita di estensione alle donne dei ministeri istituiti in Querida Amazonia, salvo errore, non era rimasta. Il sogno di quel testo ha avuto, per così dire, un supplemento di immaginazione.

d) Una riforma del Pontificale

Le conseguenze del Motu Proprio implicano una riforma dei testi e dei riti del Pontificale Romano. E la attivazione di riti ufficiali – preceduti da percorsi formativi – che avranno, come soggetti, donne chiamate a svolgere il ministero del lettorato e dell’accolitato. Questo potrà essere, in diversi luoghi e in diverse storie, un passaggio di grande rilievo.

e) Riconoscere l’autorità femminile

Ciò che risulta centrale è un “atto di riconoscimento”, un riconoscimento di autorità. Il percorso è stato lungo e accidentato e ha trovato, a lungo, una profonda sordità ecclesiale. La esclusione delle donne da ogni autorità trovava, fin da Tertulliano, parole di sostegno. Anche quando veniva ammessa, era profondamente limitata all’ambito privato. Le donne potevano leggere, insegnare e battezzare, ma solo in privato. La novità è entrata nel magistero della Chiesa cattolica con Pacem in terris. Che mette il dito nella piaga. E invita a considerare come un “segno dei tempi” l’ngresso della donna nella vita pubblica. Riascoltiamo le parole di papa Giovanni, del 1963, quando ricorda:

un fatto a tutti noto, e cioè l’ingresso della donna nella vita pubblica: più accentuatamente, forse, nei popoli di civiltà cristiana; più lentamente, ma sempre su larga scala, tra le genti di altre tradizioni o civiltà. Nella donna, infatti, diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria dignità. Sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come strumento; esige di essere considerata come persona, tanto nell’ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica.

 E poco più avanti aggiunge:

 In moltissimi esseri umani si va così dissolvendo il complesso di inferiorità protrattosi per secoli e millenni; mentre in altri si attenua e tende a scomparire il rispettivo complesso di superiorità, derivante dal privilegio economico-sociale o dal sesso o dalla posizione politica.

 f) Superare un complesso di superiorità

I due documenti di papa Francesco sono, attraverso il Concilio Vaticano II, l’inizio di un processo di superamento di quel “complesso di inferiorità” che ha segnato profondamente l’esperienza femminile, e che corrispondeva ad una “complesso di superiorità” maschile. L’accesso formale ai ministeri istituiti anche delle donne diventa la accettazione del “profilo pubblico” del femminile, il riconoscimento della sua piena dignità e la uscita dalla minorità teorica e pratica cche le riduceva a semplice”strumento”.

g) La evidenza della Chiesa come “comunità sacerdotale”

La dignità sacerdotale anche delle donne, sulla base del battesimo, diventa, così, una evidenza ecclesiale. La insistenza con cui la Lettera sottolinea la correlazione strutturale tra sacerdozio ordinato e sacerdozio comune costituisce anche il criterio per cui è possibile acquisire oggi, serenamente, nuove formulazioni della medesima sostanza: “È bene in ogni caso ribadire, con la costituzione dogmatica Lumen gentium del Concilio Vaticano II, che essi «sono ordinati l’uno all’altro; l’uno e l’altro infatti, ciascuno a suo modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo» (LG, n. 10). La vita ecclesiale si nutre di tale reciproco riferimento ed è alimentata dalla feconda tensione di questi due poli del sacerdozio, ministeriale e battesimale, che pur nella distinzione si radicano nell’unico sacerdozio di Cristo”.

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