Paolo Prodi, un “dossettiano” libero


schermata-2016-12-19-alle-19-44-06Sabato è mancato Paolo Prodi. Ha lasciato opere fondamentali sul rapporto tra Stato, potere e religione. Nel numero 2/2016 di «Munera» ho recensito l’ultima fatica che ricostruisce il suo rapporto con Giuseppe Dossetti e con le officine bolognesi.

Il professor Prodi, anche in questo libro, ha dimostrato l’acutezza del maestro nel rileggere gli avvenimenti del dopoguerra, in ambito ecclesiale e sociale, e la libertà che ha contraddistinto il suo cammino intellettuale.

Qui la recensione:

Paolo Prodi, Giuseppe Dossetti e le officine bolognesi, Il Mulino, Bologna 2016.

Giuseppe Dossetti è stato una delle figure più rilevanti del Novecento italiano. In ogni campo di azione e di pensiero che nella sua vita ha coltivato – accademico, politico, ecclesiale e spirituale – ha lasciato una traccia profonda. Non sorprende pertanto che, a vent’anni dalla scomparsa (15 dicembre 1996), si intensifichino gli scritti scientifici e le testimonianze attorno alla figura del monaco di Montesole. Il libro di Paolo Prodi però non è né una biografia di Dossetti, né il tentativo di una autobiografia a partire dall’incontro con il suo antico maestro. Nelle pagine dello storico bolognese si legge una «testimonianza» sincera e documentata del rapporto con Giuseppe Dossetti e del percorso di un apprendista in bottega, di un intellettuale acuto a contatto con le officine di Bologna che hanno animato la cultura dello secolo scorso. Il libro è un utile strumento, a partire dalla vicenda biografica dell’autore, per comprendere l’evoluzione delle strutture culturali che si sono succedute nel capoluogo emiliano a partire dal «Centro di documentazione» in via San Vitale, prima officina fondata da Dossetti nel 1952. L’officina – pensata dal politico democristiano che da poco aveva abbandonato la scena pubblica – era una comunità di destino che, almeno nell’idea originaria, doveva collocarsi tra le comunità primarie (che attenevano alla «vocazione celeste») e quelle di operazione (cooperative, partiti). Una comunità dunque che fosse «di operazione» e «di essere» perché per i partecipanti si trattava di «mettere in comune tutta la propria vocazione storica in questo con-sortio» (p. 164). L’officina bolognese era una tappa del lungo processo di gemmazione di attività e organizzazioni che caratterizzò la giovinezza di Dossetti. Si pensi, ad esempio, a quella «comunità di convivenza» che fu la comunità del Porcellino, fucina dei lavori della Costituente e della rivista «Cronache sociali». Il laboratorio bolognese nacque da uno scarto esistenziale, connotato dal distacco dalla vita accademica e politica; un momento di revisione di vita che porterà l’ex vicesegretario della DC a fondare, nella primavera del 1955, una comunità religiosa e nel 1959 a chiedere l’ordinazione sacerdotale. Al centro di questa nuova fase della vita di Dossetti ci sono le riflessioni sulla «cultura della crisi». Il mondo dopo il secondo conflitto mondiale era entrato in una crisi strutturale di cui non si scorgevano, secondo Dossetti, neppure i tratti e di fronte al quale «le scienze dell’uomo» non sapevano dare risposte. Vista la «catastroficità del sistema sociale» e la «criticità del sistema ecclesiale», non si poteva far altro che ricorre alla storia – superando lettura giuridica che fino ad allora era prevalente nel canonista reggiano – quale «strumento indispensabile per comprendere la dialettica tra la parola di Dio e la parola degli uomini, ovvero la strada per il superamento del blocco costituito da una teologia sistematica sempre più lontana dalla vita e da un diritto canonico anch’esso irrigidito in una prassi distaccata dalla radici spirituali e teologiche» (p. 22). Dallo studio della storia nasce ed evolve la relazione complessa tra i due protagonisti del libro: Prodi entra a fare parte di quella prima officina bolognese, ma se ne distanzia poco dopo per l’ambiguità della missione; si riavvicina ad essa con l’avventura del Concilio Vaticano II, ma – pur attribuendo al Centro un notevole ruolo durante i lavori dell’assise – non condivide una successiva cristallizzazione dei risultati ottenuti. È nella ricostruzione di questo rapporto che l’intreccio tra lo storico e il protagonista non si può districare e Prodi, con grande limpidezza e libertà, fa trasparire una lettura di quegli anni non priva di asprezze. Fin dal titolo l’autore marca una distanza esplicita da un altro volume – pubblicato nel 2004, a cura di Giuseppe Alberigo – nel quale si declinava al singolare l’officina bolognese, sottolineando la continuità del progetto dagli inizi fino all’attuale assetto della Fondazione per le Scienze Religiose. Prodi invece imposta le sue memorie e documenti in un’opposta prospettiva: quella di far emergere la pluralità dei cantieri bolognesi riferibili a Dossetti e la «riconversione intellettuale» di alcuni di questi che è avvenuta nei decenni. In questo testo, oltre agli accenni qui proposti, si affrontano molti altri temi: il superamento delle categorie e del pensiero del filosofo francese Maritain; il racconto del biennio (1957-58) trascorso a Bonn sotto la direzione dello storico Hubert Jedin nel quale Prodi maturerà i suoi principali temi di ricerca; il rapporto con il filosofo Ivan Illich e dell’idea di costituire un’officina a Cuernavaca in Messico; la creazione a Trento dell’Istituto Storico Italo Germanico; il racconto dell’ “ultimo” Dossetti (1986-96).

Il libro è una testimonianza preziosa del travaglio di Dossetti e, con lui, di una intera generazione che ha avuto il compito di traghettare la Chiesa e la cultura italiana oltre la modernità e che, in poco meno di tre decenni, ha visto mutare i paradigmi incrollabili che fin ad allora avevano retto la società politica ed ecclesiale. In questo libro si ritrovano, in radice, i motivi che hanno spinto i due protagonisti – Dossetti e Prodi – a vagliare l’intreccio tra Chiesa, storia e potere nel Novecento. Nelle pagine di questa testimonianza è racchiuso un ideale passaggio di consegne che invita nuovi artigiani e nuove – plurali e libere – officine allo studio della storia «come chiave interpretativa del presente».

 

Andrea Michieli

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