Le due forme della “cultura dello scarto”: nella società dell’onore e nella società della dignità


tre teologi italiani che hanno pensato a fondo questa differenza: Sartori, Dianich e Citrini

Può essere utile scoprire come la “cultura dello scarto” caratterizzi non solo il mondo “post-tradizionale”, ma anche il mondo “tradizionale”; ossia non solo la società aperta, ma anche la società chiusa, non solo la societas aequalis, ma anche la societas inaequalis.

La cultura dello scarto come critica del liberalismo/liberismo

Nel riferimento alla “cultura dello scarto”, così forte nel magistero di papa Francesco, si tratta, evidentemente, di una rilettura favorita dalla preziosa applicazione del concetto nato nell’ambito della società aperta, come giusta denuncia del formalismo vuoto della società nata sulla base delle idee di libertà ed eguaglianza. La denuncia della “cultura dello scarto” nasce nell’ambito di quel progetto liberale e di società aperta, che produce una ingente quantità di rifiuti alimentari, di rifiuti ecologici, di rifiuti umani. E’ ovvio che la nozione nasce come reazione alle attese di un mondo “nuovo”, che si credeva fondato sulla libertà e sulla eguaglianza e che invece produce schiavitù e discriminazione: tanto più gravi perché marginali, invisibili, rimosse, negate. A questa denuncia si accompagna, direi naturalmente, la riscoperta della “fraternità” come “terzo concetto” del mondo liberale, che è rimasto quasi schiacciato da “libertà” ed “eguaglianza”. Il mondo dei diritti e delle pari opportunità, garantite per principio, sembra non aver più bisogno di pensare il mondo come popolato di “fratelli tutti”. In realtà solo uscendo dall’assolutismo liberale ed egualitario è possibile sia riconoscere la irriducibilità del rapporto “fraterno”, sia il pericolo che l’altro sia ridotto a “superfluo”, a “scarto” e venga ridotto a “rifiuto”.

Non deve stupire che questo ragionamento, del tutto fondato, possa trovare terreno fertile su quella “resistenza al moderno” che l’antimodernismo dell’ultimo secolo ha così largamente diffuso nella coscienza cattolica. L’idea che la “cultura dello scarto” sia un prodotto della “modernità liberale” può indurre a coltivare la nostalgia per il mondo “pre-liberale”, che certo non conosceva questo tipo di “cultura dello scarto” e che per questo potrebbe essere idealizzato come mondo della inclusione e della tolleranza.

Un’altra “cultura dello scarto”

La tradizione ecclesiale, tuttavia, per la sua tradizione bimillenaria, conserva in sé le tracce evidenti, e le evidenze impensate, di una diversa cultura dello scarto: che non è nascosta dentro procedure formalmente liberali ed egualitarie, ma affermata recisamente sulla base di un altro modo di pensare il mondo e la tradizione. Questo approccio “emarginante” diventa chiaro quando si utilizza, per leggere il fenomeno, una preziosa distinzione proposta dal filosofo canadese cattolico Ch. Taylor. Egli infatti parla di due diverse forma di società, che caratterizzano il trapasso tra età preliberale e età liberale: alla soceità dell’onore, basata sul principio della “differenza”, succede la societa della dignità, basata sul principio di eguaglianza. Nella società della dignità, lo scarto si produce di fatto, contro i principi, e con esiti drammatici per il mondo naturale, per i beni di produzione e per le persone coinvolte con il primo e con i secondi. Si producono così differenze abissali, contro il principio di eguaglianza. Ma nella società dell’onore le cose funzionano in modo diverso: è la società stessa ad esigere e a produrre differenze, che ne garantiscono l’ordine e il senso. E’ difficile riconoscere la “cultura dello scarto” in questa forma di società dell’onore, perché la differenza che opera lo scarto è pensata come “originaria” e come “dovuta”: è la differenza tra Dio e uomo, tra maschi e femmine, tra chierici e laici, tra liberi e schiavi, tra figli legittimi e figli illegittimi, tra abili e disabili. Ovviamente anche la società dell’onore, pur ponendo per principio differenze incolmabili, elabora criteri di “fraternità”: ma lo fa senza presupporre per nulla né libertà né eguaglianza.

Due “scarti” diversi

L’effetto di “scarto” è lo stesso, anche se viene pensato in modo differente. Essere “primogenito” o essere “ragazza madre” nelle due diverse società implica un comportamente sociale e personale del tutto differente. La vicenda della “monaca di Monza”, nei Promessi sposi, o la vicenda di “Philomena” nel noto film inglese, costituiscono la traccia importante di una riflessione profonda sull’effetto di “scarto” che la società tradizionale non solo “impone”, ma considera come unica possibilità ragionevole per gestire le “anomalie” della vocazione o della maternità. La “vocazione coatta” o la “maternità negata” sono prodotti di quella società.

Questo accade anche alla dottrina ecclesiale: per alcuni aspetti, noi pensiamo ancora il “ministero ordinato” come se fossimo nella “società dell’onore” e non nella società della dignità. Così produciamo “cultura dello scarto” nel momento in cui non vediamo il cambio di paradigma culturale e possiamo immaginare che la “formazione del soggetto ministeriale” possa ancora essere gestita con le logiche tridentine, o che la riflessione sulla “riserva maschile” possa totalmente mettere sotto silenzio il cambiamento di identità della “donna esclusa”, che la considerazione magisteriale riduce alla irrilevanza. Ed è questo il lato oscuro di questa “diversa cultura dello scarto”: essa non è una conseguenza di fatto di una impostazione formalmente convincente, ma è piuttosto l’effetto indiretto di una impostazione istituzionalmente e sistematicamente distorta. Una chiesa, che per pensare le condizioni del “soggetto ordinabile”, continua nella inerzia di una “perenne gerarchia dei sessi”, come se vivessimo ancora nella società chiusa, tiene un piede nella società della dignità, quando denuncia la cultura dello scarto mondana contro i migranti o contro il sequestro delle risorse primarie, ma tiene un altro piede nella società dell’onore, quando non riflette sui principi istituzionali distorti che, indirettamente ma efficacemente, fondano soluzioni ritenute definitive, ma assunte secondo una prospettiva del tutto limitata e senza futuro. Se i fatti invocati per gustificare come “di diritto divino” la riserva maschile non sono solo fatti, ma fatti interpretati, e se i dogmi formulati, per rendere perenne la gerarchia, non sono formalmente dogmi, ma aspettative dottrinali sporporzionate rispetto al tema, la soluzione proposta è soltanto una ulteriore complicazione del problema. Così è almeno per tutti i luoghi in cui la Chiesa si trova a vivere, non solo malgrado se stessa, una società della dignità, in cui libertà di coscienza e storia della identità non possono essere più ridotte, per nessuno e contro nessuno, a quantités négligeables.

Share