“Ius in corpus” e “come tra fratello e sorella”. La svolta di “Amoris Laetitia” e la riduzione fisica delle seconde nozze


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Per comprendere gli sviluppi – e anche gli sconcerti – che AL determina nel corpo ecclesiale, può essere molto utile tornare a quella definizione di “matrimonio” che abbiamo ereditato da una lunga tradizione medievale e moderna: essa compare significativamente anche come “definizione kantiana” del matrimonio nella “Metafisica dei costumi” e brilla in quanto definizione del Codex di diritto canonico del 1917. Eccone la definizione:

“"Il consenso matrimoniale è l'atto di volontà con il quale ciascuna delle due parti trasmette e riceve il diritto sul corpo (ius in corpus), perpetuo ed esclusivo, in ordine agli atti di loro natura adatti alla generazione della prole" (can. 1081 § 2 – cjc 1917).

In quanto contratto tra uomo e donna, esso consisterebbe nel “diritto sul corpo del coniuge”, da esercitare in vista della generazione.

E’ evidente che la “tutela” di questa esclusiva in perpetuo del matrimonio monogamico – un solo coniuge per ogni corpo – determina una sanzione drastica da parte della società e anche della Chiesa. La società sanziona l’adulterio, e altrettanto fa la Chiesa.

Ciò che la società può pensare solo “a propria tutela”, la Chiesa pensa anche e anzitutto a garanzia del “segno” che il matrimonio rappresenta, e che supera l’ambito della vita dei singoli e della comunità, agganciando un livello fondamentale di “comunione tra Dio e il suo popolo, tra Cristo e la sua Chiesa”. Il segno più diretto ed esplicito della comunione con Dio è il matrimonio.

Ora, non è difficile notare come il linguaggio biblico e tradizionale abbia sicuramente ispirato la “concretezza” della definizione medievale dello “ius in corpus”. Ma è altrettanto evidente che questa definizione opera una riduzione quasi insopportabile della “ricchezza simbolica” che il matrimonio rappresenta nella tradizione ecclesiale e sociale.

Ecco dunque il rischio al quale esponiamo la tradizione quando pretendiamo di salvaguardarla soltanto con “strumenti giuridici” non aggiornati.

Oggi nessuno osa più dare una definizione di matrimonio in termini di “ius in corpus”. Ma la resistenza di questa “riduzione giuridica” appare ancora molto utilizzata “a contrario”, ossia non per definire il (primo) matrimonio, ma per escludere la rilevanza ecclesiale del secondo. In effetti è sorprendente che ciò che non si utilizza in nessun caso come “definizione del matrimonio”, sia diventato – in una lunga e recente stagione – “il” criterio per escludere la rilevanza del secondo matrimonio. In effetti la disciplina secondo cui i divorziati risposati possono accedere alla pienezza della comunione ecclesiale se promettono di vivere “in continenza” – “come fratello e sorella” – costituisce una “soluzione” che risponde perfettamente alla definizione che ho citato all’inizio. Se non eserciti lo “ius in corpus” di fatto svuoti il matrimonio (secondo) della sua realtà e salvaguardi la “unicità” dell’unico ius sull’unico corpus.

Ora è certo che Amoris Laetitia ha compiuto un passo molto importante nel “ridimensionare” le prerogative di questa “soluzione”. Essa, pur restando nel quadro delle possibilità, non gode più della esclusiva. Ma è altrettanto chiaro che i criteri con cui giudichiamo la “identità” delle famiglie allargate risente ancora molto pesantemente di questa “riduzione fisica” del sacramento. Se il matrimonio non è più comprensibile semplicemente come “ius in corpus”, anche la rilevanza delle “seconde nozze” non può essere scongiurata semplicemente con la “sospensione dello ius in corpus”. Una antropologia troppo rozza e inadeguata può pensare che si possa “essere genitori” senza “usare del matrimonio”: la identità del soggetto sessuale e del soggetto educatore non si può separare se non sulla base di una visione semplicistica e astratta, spesso solo frutto di una proiezione “in re aliena”, così tipica di una lettura clericale. Ma per capire questa evoluzione occorre mettersi – con tutta la possibile lucidità – di fronte al sorgere e allo svilupparsi della “sessualità” lungo il XIX e XX secolo. Che il sesso sia divenuto sessualità – e che quindi la riduzione materialistica del matrimonio sia anche frutto del nostro linguaggio ecclesiale non aggiornato – costituisce un cambiamento che costringe il diritto, la società e la Chiesa ad una nuova e più complessa comprensione del matrimonio. Il matrimonio comporta sempre anche l’esercizio dei una certa continenza. Ma ridurre un matrimonio reale all’esercizio esclusivo della continenza è un modo di “non riconoscerlo” e di “negarlo” – una sorta di “nichilismo pastorale” – che il linguaggio teologico e la prassi pastorale devono rielaborare e correggere quanto prima.

Non solo per accompagnare e integrare le seconde nozze come forme reali della comunione, ma anche per onorare e far desiderare più fedelmente le prime nozze, senza ridurle a stereotipi classici, spesso divenuti irrimediabilmente fuorvianti.

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