Control


Nel 2015 la Columbia University ha riedito col titolo Losing control? tre conferenze del 1996 di Saskia Sassen, sociologa alla Columbia e alla London School of Economics. «Le scoperte di allora restano i caratteri-chiave della nostra condizione economica e politica, solo molto più ingestibili. Chi aveva il potere di modificare, reindirizzare o fermare quelle tendenze non lo ha fatto o ha fallito. Negli stati e nel mondo affrontiamo oggi una sfida più grande nella lotta per società più giuste. È sistemica, ben oltre il potere di intervento delle abituali politiche nazionali. La crescita di formazioni predatorie è oggi il fattore critico. Oltre a potenti élite e accaparratori di capitale, quest’accozzaglia di elementi mescola capacità tecniche, reti globali, leggi statali e regole contabili, un mix molto più difficile da controllare o governare. Possessori di capitale e manager contano molto, ma da sé soli non possono aver prodotto l’attuale estrema concentrazione di ricchezza e di inspiegabile influenza globale. Questo potente mix crea massicci accaparramenti al vertice, distrugge l’ambiente a scala mai vista e espelle sempre più gente dal circuito della sopravvivenza persino nei paesi ricchi. Eliminarne semplicemente un elemento non basta. Ci vuol molto di più che liberarci dei super-ricchi. Vediamo elementi di queste formazioni predatorie in molti paesi molto diversi, incluse Svezia e Olanda tanto ammirate per le loro politiche sociali. Non sono i soliti sospetti – USA, UK, Russia. Un carattere di queste formazioni politiche è una nomade capacità di liquefare e catturare ciò è catturabile, il tutto in una impressionante sorta di minimalismo. Non è il vecchio stile imperiale, non c’è interesse a controllare vasti territori, solo a ricavarne quanto serve alla macchina del profitto. Un’efficienza che vuole attrezzi complessi. Come ho scoperto nelle mie ricerche, molti effetti avversi possono in parte sfuggire alle rilevazioni statistiche e ai politici. Le misure per quantificare e stabilire lo sviluppo economico operano una sorta di ‘pulizia economica’, col che intendo evocare le qualità negative della più familiare ‘pulizia etnica’. Illuminante è il modo di misurare la disoccupazione di lungo periodo» [pp. XIV-XVI].
È il nuovo ordine neoliberale, che nel 2009 Pierre Dardot (filosofo, Université Paris X) e Christian Laval (sociologo) individuano in quattro punti: il mercato è costruito con il fattivo intervento dello stato e una legislazione ad hoc; non è scambio, ma competizione intesa come ineguaglianza tra tutti; anche tra gli stati; è regola universale di comportamento e giudizio [trad.The New Way of the World, Verso 2014, pp. 301-2]. La sua legittimazione teorica più sviluppata e originale è il saggio ora classico di Franz Böhm “Privatrechtsgesellschaft und Marktwirtschaft” (1966). «Se in Rousseau la volontà generale, legame di relazione del popolo con sé stesso, fonda la legge pubblica, in Böhm ha lo scopo di stabilire e preservare la legge privata. Il governo è il guardiano della ‘volontà generale’ in quanto guardiano delle regole della legge privata» [p. 90]. Da qui la vulgata neoliberale di Friedrich Hayek (Law Legislation and Liberty, University of Chicago Press 1973): «le regole di condotta che sole rendono possibile la formazione di un ordine spontaneo di mercato sono perciò esse stesse derivate non dall’arbitraria volontà di pochi uomini, ma dal processo spontaneo di selezione che opera nella longue durée. Hayek chiaramente attinge alla teoria evoluzionista» [pp. 127-8]. «L’impresa diventa modello di soggettività: ognuno è un’impresa da gestire e un capitale da far fruttare» [p. 302].
«Il punto-chiave è che il neoliberalismo è diventato la razionalità oggi dominante, lasciando solo un guscio vuoto di democrazia condannata a sopravvivere […]. Si è materializzato in un insieme di apparati istituzionali, politici, legali, economici in una rete complessa, mobile, aperta a aggiustamenti e riprese all’emergere di effetti non intenzionali, talora contro i propositi iniziali. In questo senso si può parlare di un apparato internazionale che come ogni apparato è essenzialmente strategico», per «imporre l’obiettivo strategico di una competizione generalizzata» [p. 307].
Questo apparato estende il suo ordine nel mondo con gli strumenti analizzati da Alexander Cooley e Jack Snyder, professori rispettivamente di Political Science e International Relations alla Columbia University (e curatori di Ranking The World, Cambridge UP 2015). Nell’introduzione, Cooley spiega che le agenzie di valutazione danno un apparente ordine al caos del mondo con voti e graduatorie che «forniscono giudizi esperti sulle performance degli stati, utili a regolarli e monitorarli globalmente; sono strumenti legali e marchi o bandierine per le organizzazioni non governative e internazionali» [p. 14]; al punto che, «oltre a fare pressioni materiali e sociali, possono addirittura riconfigurare le relazioni politiche cambiando priorità burocratiche e relazioni tra stati, cementare le politiche statali in più ampi network internazionali» [p. 30].
Il problema però «è il fallimento dei valutatori nel concettualizzare coerentemente ciò che valutano – democrazia, stati falliti, corruzione, libertà di stampa, qualità degli investimenti. […] Invece di individuare cause, conseguenze e relazioni dalla teoria, danno pesi arbitrari a elementi assunti come additivi, mentre di fatto sono interattivi in modi complessi. Poiché nei casi di interesse per la politica pubblica gli elementi spesso non si organizzano in sindromi coerenti, il risultato può essere un indice che oscura proprio i fattori più importanti nella valutazione politica» [p. 179].
Non conoscere ciò che si valuta porta alle stelle la confusione già grande sotto il cielo, ma nessuno deve risponderne a nessuna autorità. Possiamo però non crederci e nel 1970 Donald Campbell (citato da Cooley a p. 5) già ammoniva: «quanto più un indicatore sociale è usato nelle decisioni, tanto più è oggetto di pressioni corruttive e tanto più distorti saranno i processi sociali monitorati». Ne risulta il “losing control” (Sassen) di democrazie ridotte a gusci vuoti (Dardot e Laval) elettorali, oggi in transizione verso la democrazia di non-dominazione di James Bohman (Democracy across borders, MIT Press 2007) richiamata da Simona Piattoni (professore di scienze politiche, Università di Trento) e Justus Schönlau (Comitato delle Regioni UE): il primato della legge sulle ‘interferenze arbitrarie’ neoliberali è «impegno che richiede di concretizzare i diritti in una varietà di istituzioni sovrapposte; il costituzionalismo della Unione Europea è l’esempio migliore di questo tipo di ordine riflessivo, democratico, transnazionale. Per aver successo deve superare l’attuale concezione giuridica dei diritti verso una concezione politica dei diritti come appartenenza alla comunità politica umana». «In questo contesto radicalmente mutato, la buona governance democratica ha bisogno di unità sia maggiori che minori» [Shaping EU Policy From Below, Edward Elgar 2015, p. 17].
Le istituzioni democratiche di ogni livello, da locale a sovranazionale, devono dialogare per rendere concreta l’appartenenza politica di tutti in tutta la loro varietà, come fa l’UE in controtendenza rispetto ai sempre più impotenti stati nazionali e più ancora rispetto al take control britannico e al great again americano, nostalgie di un passato ormai definitivamente passato, come l’URSS.
Il control si esercita nel dialogo tra le istituzioni democratiche della non-dominazione. L’alternativa è la radicalizzazione – il take control del ciascun per sé – «intesa come processo di perdita di identità. Ogni perdita d’identificazione con una particolare categoria sociale si accompagna con una perdita di identità perché riduce la combinazione unica di categorie sociali che costruisce l’identità individuale. All’estremo, l’identità si riduce a pochi o a un unico fattore di identità sociale. Senza l’identificazione con altre categorie complementari, l’autoidentificazione con un gruppo diviene unica e identica. Così l’individuo scompare nel gruppo», scrivono Carolin Goerzig, Assistant Professor alla L. Douglas Wilder School of Government, e Khaled Al-Hashimi, di Medici Senza Frontiere [Radicalization in Western Europe, Routledge 2015, p. 144]. «Sintomatica della problematica della radicalizzazione è l’impossibilità pura e semplice di affermare la terra di mezzo del compromesso, senza pregiudizi o ‘neutrale’» [p. 160]. Questa ricerca sul radicalismo islamico in Europa ci aiuta a capire take control e great again. Forse è un caso, forse no. La posta in gioco è la democrazia nel mondo senza confini, dove la violenza può sembrare una soluzione, come agli «attentatori suicidi, citati per aver affermato che la loro ultima missione avrebbe fatto loro riguadagnare il controllo» [p. 150].
La cifra del nostro tempo è la relazionalità, costretti dalle nostre stesse tecnologie. Il punto è se sia relazionalità tra uguali per diritti e doveri in istituzioni democratiche globali, o relazionalità in cui i ricchi e i potenti fanno quello che vogliono a spese di tutti gli altri. I più pericolosi sono gli illusi, che credono di avere il controllo della situazione solo perché possono fare del male ai loro vicini.

?? Patrick Hosking, Financial Editor di THE TIMES riepiloga i vantaggi del mercato UE: «è vicino, con lo stesso fuso orario. È ricco. Rispetta la legge, i contratti si applicano facilmente. È relativamente incorrotto (eccetto l’Italia). Tutti parlano inglese (eccetto la Francia). Ha standard tecnici comuni. Ha una moneta molto liquida, facilmente commerciabile. Fatto cruciale, le infrastrutture e gli standard di sistemi e di fornitura esistono già e funzionano». «Quelli della ‘vera brigata globale’ […] dimenticano che ai giorni gloriosi c’era sempre nei pressi una cannoniera inglese a garantire condizioni favorevoli. Quei tempi non tornano. […] Persino Riad pone la condizione che per la sua Aramco il London Stock Exchange addomestichi le proprie regole. […] Ma New York ha fatto il contrario ed è uno dei motivi per cui le imprese del suo listino sono valutate di più». «Il prezzo di fare più affari con dittature, teocrazie e repubbliche banana è soddisfare i loro desideri. Lo stesso vale con USA e Giappone. Se vogliamo vendere il nostro polpettone agli americani, è una scommessa già vinta prevedere che in cambio ci vorranno vendere i loro polli ora banditi perché lavati nell’amuchina e la carne di bovini cresciuti a ormoni.» [«Britain could pay a heavy price for seeking more trade outside the EU», 18/7/2017, p. 47]. Se non è per soldi, allora perché lo fanno? Data la ‘relazione speciale’ con gli USA ma divisiva con l’UE (come nella disastrosa guerra in Iraq: da quattordici anni continua a riprodursi) una traccia di risposta viene dagli USA, via Vaticano e The Financial Times nella notizia di un articolo di padre Antonio Spadaro in La Civiltà Cattolica: «un alleato del Papa ha attaccato Stephen Bannon, lo stratega della Casa Bianca, come “sostenitore della geopolitica apocalittica” in un articolo che denuncia la svolta fondamentalista di alcuni cattolici conservatori sostenitori di Trump candidato alla presidenza, nel “sogno nostalgico di uno stato di tipo teocratico”. “La prospettiva più pericolosa di questo strano ecumenismo è la sua visione xenofoba e islamofobica che vuole mura e deportazioni purificatrici”» [James Politi, «Pope’s allies accuse Bannon of pushing fundamentalist agenda», 15–16/7/2017, p. 4]. Nel 2014 Stephen Bannon ha esposto in teleconferenza la sua strategia all’Istituto Dignitatis Humanae in Vaticano, il cui fondatore Benjamin Harnwell nel dicembre 2013 ha salutato Papa Francesco in visita sottolineando la lotta contro aborto, suicidio assistito, violenza antireligiosa e, in era neoliberale, contro il «crescente approccio collettivista e confiscatorio dei governi occidentali verso i diritti di proprietà e il benessere privato degli individui». Su questo punto ecco take control e great again, a beneficio anzitutto dei promotori, ma La Civiltà Cattolica e The Financial Times ci ricordano la soggiacente ideologia politica della dominazione, ancora una volta. E ancora una volta tutte le strade portano a Roma, in perenne sperimentazione di dominazione politica (il governo come impresa e i tweet come discorso politico li abbiamo, se non inventati, sperimentati noi). Invece l’UE costruisce faticosamente la democrazia della non-dominazione, come confermano per eccezione UK, Polonia e Ungheria.

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