Si farà, meglio se tempestivamente


Nel convegno del Centro di Iniziativa Teatrale Mario Apollonio su Identità europea. Diritto, storia, cultura artistica e teatrale, in Università Cattolica e Biblioteca Ambrosiana l’11-12 maggio 2017 a Milano, un relatore ha ricordato che Jean Monnet non ha detto «se oggi dovessi ricominciare, partirei dalla cultura». Con la Dichiarazione Schuman del 1950 fondò interessi condivisi franco-tedeschi nella Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio, poi Mercato Comune e Unione Europea, iniziativa ante litteram di verità e riconciliazione, prefigurata da Monnet a Algeri il 5 agosto 1943: «Non ci sarà pace in Europa se gli Stati si ricostituiranno in base alla sovranità nazionale, con le sue implicazioni di prestigio politico e protezionismo economico … Gli Stati europei non sono ciascuno abbastanza forti per poter garantire ai loro popoli prosperità e sviluppo sociale. Le nazioni europee devono perciò formare una federazione o un’entità europea che ne faccia una comunità economica».
Il pensiero elabora criteri di orientamento e azione, che generano fatti: senza dirlo, Monnet è partito dalla cultura nelle sue due dichiarazioni a cavallo del processo a Norimberga ai maggiori responsabili nazisti ancora vivi, ricostruito da Philippe Sands, docente di diritto allo University College di Londra, alla luce dei lavori di Hersch Lauterpacht sui diritti umani individuali e Rafaeł Lemkin sul genocidio. Il tribunale penale internazionale vi fondò le sentenze e stabilì la legge internazionale sovraordinata a leggi nazionali che avevano distrutto gli europei ebrei, e non solo [La strada verso est, Guanda 2017]. La cultura di Lauterpacht, Lemkin, Monnet ha prodotto pace e benessere.
Culturale, scrive Mario Perniola, è «la bolla speculativa di quel ‘mondo dell’arte’ iniziato a fine degli anni cinquanta del Novecento e caratterizzato dalla solennizzazione culturale delle avanguardie storiche, il cui nume tutelare fu Marcel Duchamp […] un micro-ambiente culturale che ha cercato per cinque decenni di rinnovarsi continuamente, ricorrendo a tutta una serie di mode più o meno effimere che si presentavano sotto nomi provocatori e preoccupandosi di mantenere sotto il controllo di pochi galleristi, collezionisti e mediatori rapaci, con la complicità di istituzioni pubbliche, il diritto alla legittimazione e alla consacrazione di prodotti che solo nominalmente potevano essere definite ‘opere d’arte’, ma erano in realtà feticci artistici. La valorizzazione iperbolica di tali entità era strettamente connessa con operazioni mediatiche che trasformavano gli artisti in veri e propri divi dello spettacolo culturale, secondo una economia della notorietà basata esclusivamente sulla firma». «Cosa c’è di più ‘puro’ e ‘vero’ del capitalismo finanziario, che trova nella nicchia artistica il micro-ambiente in cui manifestare la sua vera natura?» [L’arte espansa, Einaudi 2015, pp. 3 e 10].
In effetti, per il giurista Franz Böhm (“Privatrechtsgesellschaft und Marktwirtschaft”, 1966) «il governo è il guardiano della ‘volontà generale’ in quanto guardiano delle regole della legge privata» dettate dagli interessi dominanti, scrivono il filosofo Pierre Dardot e il sociologo Christian Laval [trad. ing. The New Way of the World, Verso 2014, p. 90]. Vi si è ispirato Friedrich Hayek: «le regole di condotta che sole rendono possibile la formazione di un ordine spontaneo di mercato sono perciò esse stesse derivate non dall’arbitraria volontà di pochi uomini, ma dal processo spontaneo di selezione che opera nella longue durée. Hayek chiaramente attinge alla teoria evoluzionista» [pp. 127-8]. «L’impresa diventa modello di soggettività: ognuno è un’impresa da gestire, un capitale da far fruttare» [p. 302]. «Il punto-chiave è che il neoliberismo è diventato la razionalità oggi dominante, lasciando solo un guscio vuoto di democrazia condannata a sopravvivere» [p. 307].
La cultura genera fatti perché «dove la scelta umana ha maggiore ampiezza – e grande ruolo – è nel preparare alle sfide che accompagnano il cammino della storia. Primo passo per essere preparati alle transizioni geopolitiche e epocali già in atto è di riconoscere che stanno avvenendo e delineare le loro cause e implicazioni», scrive Charles A. Kupchan, docente di relazioni internazionali a Georgetown University [The End of the American Era, Knopf 2003, p. 336].
A Norimberga «oltre a documenti come i diari di Frank, furono mostrati grotteschi manufatti – pelli umane tatuate, una testa rimpicciolita – e vennero proiettati filmati sul grande schermo bianco appeso in fondo all’aula. L’apparizione di Hitler, in una breve ripresa, scatenò l’agitazione degli imputati. Si sentì Ribbentrop commentare: “Non riesce a percepire la forza terribile della sua personalità? Non capisce con che decisione era in grado di sopraffare gli altri?” Una forza ‘erschütternd’ sconvolgente» [Sands, p. 301]. E in un «eloquente sondaggio nella zona d’occupazione americana in agosto 1947, il 55% dei tedeschi intervistati pensava il nazismo come una “buona idea male attuata”» [André Loez, «Allemands dans la guerre: histoire d’une faillite morale», Le Monde, 25/08/2017, p. 11].
Ma le idee si attuano per ciò che sono, anche coi tweet. «In maggio Trump aveva lui stesso condiviso informazioni sensibili su un progetto di attentato islamico con pc portatili, in un colloquio nella stanza ovale col ministro degli esteri russo Sergueï Lavrov. L’informazione era subito trapelata. Piccato per le accuse di dilettantismo, Trump si era difeso dicendo di non aver mai fatto il nome di Israele davanti ai russi. Così facendo, aveva rivelato lui stesso un ragguaglio della massima riservatezza sulla fonte dell’informazione» [Corine Lesnes, «La Maison Blanche à l’offensive contre les fuites», Le Monde, 6-7/08/2017, p. 3]. Senza neppure l’alibi della forza ‘erschütternd’ del capo.
Austroungarici di nascita, Lauterpacht, Lemkin e Hayek ci hanno dato rispettivamente i diritti umani individuali, la condanna del genocidio, il neoliberismo. Nei fatti la cultura dei primi converge e si oppone a quella del terzo, ma tutte condividono un campo globale di pensiero e azione invece «della sovranità nazionale, con le sue implicazioni di prestigio politico e protezionismo economico», l’errore fatale di Brexit e America Great Again: arroccarsi. Lo stesso errore dell’URSS di Brežnev, allora con gli USA regista di un mondo ora allo sbando.
La «transizione geopolitica e epocale già in atto» comunque procede, e bisogna delinearne «le cause e implicazioni». Il futuro è nelle nostre mani, anzi nella nostra testa, ci ricorda Or Rosenboim, storica delle idee a Cambridge [«Inventer», propos recueillis par Marc-Olivier Bherer, Le Monde Idées, 02/09/2017, p. 2]. «Dal 1940 fino alla guerra di Corea (1950-1953) diversi studiosi gettano le basi intellettuali delle organizzazioni sovranazionali quali l’ONU e l’Unione europea, ma senz’avere parte alla loro costruzione. Sono pionieri più che fondatori. La loro riflessione è ispirata dalla guerra: è necessario reagire a nazionalismo e imperialismo. Più in generale, capiscono che il mondo è in via di ridefinizione. Il pianeta è sempre più interconnesso da migliori e più diffusi trasporti, tecnologie e comunicazioni. La stessa guerra mondiale all’inizio era solo un conflitto locale, estesosi al pianeta». «Il discorso mondialista degli anni 1940 dimostra che vi sono due modi di pensare l’ordine mondiale: apertura e chiusura. Per i pensatori della metà del XX secolo la migliore risposta all’interconnessione del mondo è abbracciare questa apertura praticando il pluralismo. Mondialismo non significa fine della guerra e abolizione dello stato: pochi propongono la creazione d’uno stato mondiale. Questi intellettuali pensano invece che la ricostruzione del mondo dopo la seconda guerra mondiale esige la creazione di un sistema aperto, flessibile, democratico e inclusivo. Oggi, certi responsabili politici sostengono invece una politica del ripiego – militarismo, nazionalismo e antipluralismo culturale. Dove ci condurranno le tensioni tra partigiani dell’apertura e della chiusura, ancora non sappiamo».
Dopo Norimberga il Tribunale penale internazionale ha operato ancora in Europa sull’ex Jugoslavia. Il suo presidente Antonio Cassese avvertì allora che «il procedimento giudiziario e la sanzione dei crimini internazionali non mettono in gioco solo due parti avverse; sono di interesse generale per la giustizia e impegnano tutta la comunità internazionale. […] La necessità di procedure penali internazionali meno lunghe, meno pesanti e meno costose è innegabilmente sempre più pressante». Lo ricorda François Roux, capo dell’ufficio di difesa al Tribunale speciale per il Libano, a margine delle dimissioni di Carla Del Ponte il 6 agosto dalla Commissione Indipendente d’Inchiesta ONU sulla Siria: «la giustizia penale internazionale è in pericolo» [«La justice pénale internationale doit changer de philosophie», Le Monde, 29/08/2017, p. 21]. «La giustizia internazionale va salvata? Certo che sì, ma passando per la creazione e la messa in opera di un diritto penale davvero internazionale a beneficio di una giustizia efficace, equa e giusta, la sola capace di contribuire a restaurare una pace durevole dopo le catastrofi, umane oggi, ambientali e di salute pubblica domani».
È ora di prevenirle, le catastrofi. Rosenboim cita Raymond Aron, David Mitrany, Lionel Robbins, Barbara Wootton, Friedrich Hayek e Richard McKeon. «Robbins ha iniziato a scrivere di federalismo nel 1937. Individua tre innovazioni necessarie a creare una federazione di paesi e la loro integrazione economica: mobilità delle persone, libero scambio e moneta comune. Tre punti al cuore del dibattito che ora agita l’Europa». Per Hayek e Wootton la prospettiva d’una federazione sovranazionale è europea. «Ma con profonde divergenze. Hayek stima vadano limitate le prerogative statali, giudicate strapotenti: va realizzata un’organizzazione sovranazionale con il compito di dare regole minime al mercato. Wootton la pensa diversamente: al contrario, gli stati nazionali hanno solo capacità limitate per inquadrare l’economia e auspica che l’organizzazione sovranazionale fissi non solo un quadro economico, ma anche le norme sociali a beneficio di tutti per impedire una concorrenza a spese dei salariati», oggi devastante. Sola organizzazione sovranazionale in grado di farlo è l’Unione Europea, figlia dei diritti umani e del genocidio.
Lo farà, meglio se tempestivamente, con un governo sovranazionale europeo.

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