“Camminare, pregare, lavorare insieme”: il vescovo e il compito ecumenico. Belle luci e piccole ombre


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Un nuovo documento del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, intitolato IL VESCOVO E L’UNITÀ DEI CRISTIANI: VADEMECUM ECUMENICO, appare un convincente contributo alla diffusione della “passione per l’unità” come compito primario della Chiesa cattolica, e anzitutto del ministero episcopale. Questo è un dato di estremo rilievo e che introduce, potremmo dire, un cambio di passo nella tensione ecclesiale alla riconciliazione tra confessione. Se l’ecumenismo viene delineato come compito della Chiesa locale, come munus episcopale qualificante il ministero e viene articolato su diversi piani, con la dovuta attenzione e mediante un linguaggio lineare, aperto, quasi sempre diretto e fondato strutturalmente sui testi del Concilio Vaticano II, il testo del “Vademecum” ne emerge come un obiettivo avanzamento della coscienza ecumenica del cattolicesimo e del suo atteggiamento generale verso il compito della unità della Chiesa. Di questo non si può non rallegrarsi di cuore. Per fornire una rapida sintesi del documento, vorrei indicarne la struttura, i singoli passi qualificanti, riservando solo in coda, la attenzione ad alcune perplessità, che non minano in alcun modo il valore del documento, ma possono limitarne alcuni sviluppi possibili, senza intaccarne però il valore complessivo, che appare di sicuro, deciso e convinto progresso.

a) La struttura lineare del Vademecum

Il testo (che comprende 42 numeri) di divide in 2 parti, precedute da una Prefazione e da una Introduzione e seguite da una Conclusione e da una Appendice, dove si elencano tutti i partner ecumenici dei dialoghi internazionali. La seconda parte è articolata in 4 sezioni, ognuna seguita da “raccomandazioni pratiche”, ossia da consigli dedicati al discenimento del  piano immediatamente pastorale. La Introduzione (1-5) precisa il taglio del documento, che è già anticipato nel titolo: “Il Vescovo e l’unità dei cristiani”. Al centro vi è il richiamo all’ecumenismo “come compito episcopale” non accessorio e non secondario, come chiesto dal Concilio Vaticano II e poi perseguito dal cammino di attuazione delle intenzioni di “Unitatis Redintegratio”. Importante è quanto precisato nella Prefazione: “Nel servizio dell’unità, il ministero pastorale del vescovo include dunque non solo l’unità della sua Chiesa, ma anche l’unità di tutti i battezzati in Cristo“. Per questo il documento è offerto come “supporto” ai vescovi diocesani per comprendere e attuare meglio il loro compito ecumenico. Si aggiunge poi che ogni Vescovo deve considerare le condizioni specifiche della propria diocesi, la sua storia, per calibrare a dovere possibilità e limiti.

La prima parte (6-14) è dedicata alla Promozione dell’ecumenismo nella Chiesa cattolica e struttura le competenze episcopali e diocesane da attivare per assumere il compito della unità della Chiesa e dei battezzati. La cura per la formazione e per la comunicazione arriva a definire, tra le raccomandazioni, non solo la doverosa istituzione di corsi di ecumenismo nella formazione dei laici e dei seminaristi, ma anche di sviluppare una dimensione ecumenica in ogni corso teologico.

La seconda parte (15-41) ha come titolo La relazione della Chiesa cattolica con gli altri cristiani e presenta il “munus” ecumenico suddiviso in 4 ambiti: ecumenismo spirituale, dialogo della carità, dialogo della verità e dialogo della vita. Questo ultimo ambito sarà a sua volta diviso, come vedremo, in tre percorsi.

b) Le diverse “anime” dell’ecumenismo

L’ecumenismo viene dunque articolato in 4 grandi dimensioni: anzitutto quelladell’ ecumenismo spirituale, che sviluppa esperienze comuni di preghiera, di rapporto con la Scrittura, di testimonianza di vita, di ritmi festivi e di percorsi di santità e di “purificazione della memoria”. Poi vi è l’ecumenismo che deriva dal “dialogo della carità“, attento alle forme pratiche di collaborazione. Poi quello che scaturisce dal “dialogo della verità“, con i percorsi di approfondimento teologico. Infine il grande “dialogo della vita” che traduce in fatti concreti i risultati dei primi tre contesti. Li vediamo qui di seguito.

c) I tre percorsi: ecumenismo pastorale, pratico e culturale

Anzitutto vi è l’ecumenismo pastorale. Con esso si intende la “messa in comune” delle risorse, umane e materiali, tra le chiese. Questo è il registro, positivo e accogliente, con cui si affrontano anche i temi scabrosi del ministero e dei sacramenti. Sia pure con i limiti che vedremo tra poco, l’approccio è positivo ed espresso anche generalmente con bella apertura. Poi l’ecumenismo pratico, che implica la collaborazione nel campo delle realizzazioni di “servizio al mondo” in cui i cristiani diventano luce e testimoni del Vangelo. Infine l’ecumenismo culturale, nel quale la conoscenza dei cammini cristiani degli altri diventa arricchimento e risorsa di unità comune.  La delineazione di questi obiettivi, corredata da suggerimenti pratici, è proposta con linguaggio lineare, aperto e propositivo, lontano da toni apologetici, identitari o difensivi.

d) La questione dei sacramenti condivisi

Proprio nel punto più delicato, , al numero 36, ossia quello della “condivisione della vita sacramentale”, il segnale di un certo disagio emerge dal regime linguistico del testo: subito il documento tende ad assumere in una certa misura il tenore più rigido del linguaggio canonico mediante la terminologia della “communicatio in sacris“. Bisogna però riconoscere una evidente resistenza alla tentazione tradizionale di giuridicizzare la questione. Si lascia perciò aperta la tensione tra un duplice principio. E questo è sicuramente un grande avanzamento, anche se espresso in un linguaggio solo parzialmente all’altezza della sfida. Si dice, infatti, e con pieno fondamento, che da UR si deve desumere che la dimensione sacramentale – eucaristica, penitenziale e di unzione degli infermi – non solo “esprime la comunione”, ma è anche “mezzo di salvezza”. Si tratta di due principi di valore diverso, che vengono assunti però con la consapevolezza di una esigenza di mediazione e di discernimento, che non può essere risolta a priori. Qui, a mio avviso, sia pure in un linguaggio piuttosto formale e un poco irrigidito, il Vademecum elabora la questione in modo lungimirante: essendo il sacramento non solo “espressivo” di una comunione che deve già esserci, ma anche “costruttivo” di una comunione a venire, non può essere giudicato solo “a priori”, ma anche “a posteriori”. Ciò che manca, al linguaggio del Vademecum, è la pienezza del linguaggio liturgico. Si parla nei termini del codice e della tradizione dogmatica. Si parla di amministrazione, non di celebrazione. Per questo è difficile trarre a piene mani le conseguenze dei due principi lucidamente riconosciuti.

e) Movimento ecumenico senza movimento liturgico?

A ben vedere qui emerge, in modo molto chiaro, il grande merito di una riflessione che il movimento ecumenico ha saputo elaborare nella lettura delle fonti giuridiche e dogmatiche, trattate con finezza e con accuratezza. Ma mancano, a mio parere, le due fondamentali acquisizioni che SC e il movimento liturgico hanno introdotto nella coscienza ecclesiale e che potrebbero essere qui di grande giovamento:

a) la natura di “fonte” e non solo di “culmen” delle azioni rituali, nelle quali la chiesa non solo “esprime” la comunione, o “media la salvezza”, ma sperimenta, riconosce  e costruisce la comunione che riceve dal Signore. Se la “ecclesia” può essere pensata “de eucharistia”, la concreta celebrazione comune diventa principio del cammino di comunione, non semplicemente manifestazione di una unità già presente. Non solo “premio”, ma anche “farmaco”.

b) Il linguaggio rituale, pertanto, non è semplicemente lo “strumento” per esprimere la corretta visione della unità, ma è anche la “esperienza comune” per riconoscere e costruire una unità generata dal canto comune, dall’ascolto comune, dalla partecipazione comune, da spazi e tempi comuni. I sacramenti, perciò, non dovrebbero essere semplicemente pensati come “amministrati” ad altri, ma come celebrati con altri.

Qui, a me pare, la coscienza cattolica fa fatica non semplicemente nel pensare il rapporto con gli altri, ma nel dire in pienezza ciò che essa sperimenta di sé.

f) Il linguaggio simbolico-rituale e la sua potenza primordiale

Cionodimeno, va riconosciuto che il Vademecum evita di assestarsi direttamente sul versante strettamente giuridico della problematica. Ma non è un caso che proprio in campo sacramentale sia più frequente il riferimento ai canoni, sebbene temperato e con carattere non risolutivo. Potremmo dire: proprio dove il simbolico e il rituale avrebbe dovuto respirare, non lo si utilizza praticamente mai, ma ci si affida alle categorie necessarie, ma insufficienti, del diritto, temperate dal discernimento della prudenza. Per questo il minimo necessario, ossia il “caso di morte” e di “grave necessità”, diventa apertura alla speranza. Sembra proprio che, paradossalmente, solo nel “caso di morte” si possa sperare una maggiore comunione. L’orizzonte dell’ecumenismo, però, si costruisce non anzitutto per i morenti, ma per i viventi; non anzitutto per chi si trova alla fine della vita, ma anzitutto per chi sta all’inizio della vita. Non anzitutto nell’ assumere con prudenza i minimi necessari della esistenza, ma nel condividere con coraggio i massimi gratuiti della “trasgressione rituale”. La forza simbolico-rituale delle liturgie diventa in questo caso essa stessa alimento e forza di unità. Questo le famiglie miste lo sanno meglio della Chiesa.

Gli strumenti con cui “diciamo” e “pensiamo” la realtà della unità dei cristiani influenzano decisamente le nostre visioni e le nostre opzioni. Se, per pensare la comunione, usciamo dalla minorità espressiva dei codici, ed entriamo nella sovrabbondanza simbolico-rituale delle azioni liturgiche, avremo motivi e argomenti più forti per promuovere l’unità ancora dovuta e per riconoscere quella già esistente, affinché la comunione ecumenica anche sacramentale non sia assunta “mortis causa”, ma “vitae gratia”. Nel contesto di un documento così aperto e fiducioso, un linguaggio meno giuridico e più simbolico a proposito di eucaristia e sacramenti non sarebbe stato fuori luogo. Ma non è certo questo limite, anche se vistoso, a diminuire il valore di un testo del quale possiamo francamente rallegrarci.

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