Una Chiesa fuori di sé: crisi e sfide


Venerdì 18 agosto si è tenuta a Camaldoli una serata di riflessione sul tema: “La crisi del cristianesimo in occidente”, nella quale sono intervenuto insieme a Lucia Vantini e che può essere ascoltata sul canale youtube al seguente link (qui). Pubblico qui di seguito lo schema su cui ho costruito la mia relazione.

Si manifestò in altra forma (en ethèra morphé)”

(Mc 16,12)

In questa “Sala del Landino”, che frequento ormai da alcuni decenni, è bello parlare sotto un soffitto ligneo solidissimo e potente e sotto lo sguardo della “testa dorata” di Giovanni XXIII, che si affaccia quasi alla finestra, poco sotto la targa che ricorda come, in questa stessa sala, “diebus canicularibus” si tenessero molti secoli fa discussioni accademiche con i migliori ingenii dell’umanesimo e del rinascimento toscano. A Camaldoli si respira una tradizione di libertà che continua.

La riflessione di questa sera muove da due libri: un grande “canto del cigno” e una bella “opera prima”. “Un cattolicesimo diverso” di Gh. Lafont e “Dio rimane” di Debora Rienzi. Biograficamente stanno alla fine di una vita e all’inizio di una carriera. Sono due libri sorprendenti. Perché aprono prospettive di rilettura importanti della nostra tradizione cristiana e cattolica. E rispondono magistralmente alla crisi di cui vi dirò. Affascinano come le opere prime e le opere ultime. Come i primi minuetti di Mozart o gli ultimi quartetti di Beethoven, come le danze del giovane Bach o l’arte della fuga lasciata incompiuta. Un terzo libro (“Era irriconoscibile” di Enrico Mazza) ci offre una sorta di “basso continuo”, come meditazione sulla identità del Risorto “in altra forma”.

1. Il cristianesimo in crisi: non è una novità. Vorrei parlare, in modo particolare, della crisi del cattolicesimo, della grande opportunità del primo papa “non europeo”, che ci permette di capire meglio la differenza tra “crisi istituzionale” e “crisi sostanziale”. Perché, appunto, Francesco, non essendo europeo, ha uno “sguardo da fuori” che aiuta a relativizzare le nostre fisime, i nostri tic, i nostri assoluti, che non sono cattolici, ma semplicemente europei, di una cultura che è cambiata e con la quale non dobbiamo più confondere il vangelo. Se il vangelo “resta”, la cultura può e deve cambiare!

2. Da dove iniziamo? Si potrebbe iniziare a considerare la crisi da molti punti storici di svolta: dalla traduzione imperiale romana della fede, poi dalla traduzione carolingia, poi da Gregorio VII, dalla versione scolastica, dalla scoperta dell’america, ovviamente anche da Lutero, ma io scelgo dalla “fine della tradizione” che accade con le rivoluzioni politiche e industriali tra fine 700 e primi 800. Lì accade (in Europa e diversamente in Nord America) qualcosa di enorme, che mette alla prova il piccolo mondo antico europeo e poi mondiale: cambia il modo di pensare il soggetto lavoratore e il soggetto cittadino. Cambia l’idea di libertà e di autorità. Siamo ancora tutti vittime e prodotti (attori e risultati) di questo grande evento di tecnologia economica e di tecnologia politica. Da queste rivoluzioni nasce la rilettura dei soggetti e degli oggetti, dei giovani come delle donne.

3. Cambia il “cuore” della società, che passa da “società dell’ onore” a “società della” dignità. E’ stato il filosofo cattolico canadese Ch. Taylor a suggerirmi una delle chiavi di lettura per me oggi più efficaci per interpretare questa crisi, che viviamo da 200 anni. Ed è, appunto, il passaggio dalla società dell’onore alla società della dignità. Si tratta di un passaggio epocale, che inaugura le forme di vita a cui oggi siamo legati in buona parte del mondo cosiddetto “avanzato”, o, per dire meglio, nella cosiddetta “società aperta” (nella quale la identità non è prestabilita in modo assoluto). Potremmo dire così: si passa dal principio di “differenza” (di cui vive l’onore) al principio di “eguaglianza” (di cui vive la dignità).

4. La crisi delle fedi e della forma cattolica dipende, in larga parte, da questa nuova forma di società. La società aperta non predetermina i destini, le identità, le funzioni, i mestieri, le vocazioni. Li affida alla libertà (sempre in cerca di autorità e nel dramma di un riconoscimento non più assicurato a priori). La tentazione, per tutte le chiese, e per la chiesa cattolica in modo particolare, è di sancire una alleanza difensiva con la società dell’onore, per poter dire se stessa secondo la “tradizione” (elaborata in secoli di società dell’onore). Le differenze fondamentali, che si implicano una con l’altra, sono tre: differenza tra Dio e uomo, tra maschio e femmina, tra chierici e laici. Difendere queste differenze si identifica, purtroppo, con la difesa del vangelo. Qui sta l’errore più grave e più difficile da superare. Ci siamo convinti, da 200 anni, che la custodia del divino consista nel conservare la società ingiusta.


5. Excursus: sul “clericalismo” e i suoi significati dimenticati. Identità ecclesiale di fronte al mondo laico. Il clericalismo era “la” forma della apertura al mondo. La chiesa era “clericale” per poter istituire una relazione di “uscita”. Solo a partire dalla fine del 700 la logica clericale è diventata, progressivamente, chiusura e diffidenza verso il mondo.

6. Una lenta elaborazione della crisi. I segni dei tempi di 60 anni fa: lavoratori, donne, popoli in una nuova lettura. La posizione cattolica ha reagito alla “società aperta” in modo frontale. Fino al 1870, per un secolo, compilando elenchi sterminati di errori moderni. Tra fine 800 e prima metà del 900 la cosa si è trasformata nella “lotta contro il modernismo”, le cui radici sono nel Sillabo di Pio IX e arrivano fino al 1950. Bisogna attendere Giovanni XXIII per trovare, inaspettatamente, un approccio veramente nuovo, fino alla scoperta di “segni dei tempi”, ossia di elementi della storia comune, segnati dalla novità della società aperta, che la Chiesa inizia a valutare positivamente. Nei “segni” che la storia offre la Chiesa diventa “discente”.

7. Tre nuovi segni dei tempi: generare custodire comunicare. Potremmo, 60 anni dopo, identificare altri “segni dei tempi”, che si aggiungono a quelli ancora disattesi di 60 anni fa. La forma moderna del “generare”, la forma moderna del “custodire” e la forma moderna del “comunicare” ci insegnano qualcosa. Lo fanno uscendo una volta per tutte dalle tentazioni nostalgiche delle modalità tradizionali del generare, del custodire e del comunicare, che incidono pesantemente sul modo di ascoltare la Parola e di annunciarne il messaggio di fede e di libertà. Come generiamo oggi alla vita, alla fede, alla carità? Come custodiamo l’uomo, il creato e Dio stesso? Come comunichiamo la Parola e la sua forza di amore? Questi punti-chiave sollecitano quella “riformulazione del depositum fidei” che il Concilio Vaticano II ha chiamato “indole pastorale”.


8. Superare l’antimodernismo come “destino cattolico” . Gli abiti ottocenteschi, che abbiamo conservato gelosamente fino agli anni 50 e che sono tornati prepotentemente in auge dopo gli anni 80 del 900, con il sorgere di un vero e proprio “dispositivo di blocco” messo in atto dal magistero cattolico contro ogni novità, percepita come minaccia. Due esempi: la nostalgia della liturgia riformata dal Concilio Vaticano II e il tentativo di “dogmatizzazione” della riserva maschile sul ministero ordinato: due fenomeni recentissimi (degli ultimi 30 anni) che mostrano bene la tentazione di pensare il vangelo nella “società della differenza”, anche se non sappiamo più darne argomentazioni credibili e plausibili.

9. Il cattolicesimo come “promotore di cultura” (non di musei). Riconoscere il risorto significa diventare corpo di Cristo, entrare nella logica della morte e risurrezione, e così scoprire il Signore che è “irriconoscibile” e che si presenta “in altra forma”. Il Signore risorto è signore della storia, ma non è immediatamente riconoscibile, oggettivabile, esigibile! Si presenta sempre “in altra forma”. Per questo ha bisogno di “altre categorie” con cui dire il medesimo evento di morte e risurrezione.

Precisare il concetto di “dottrina” (a partire dalla “natura della dottrina” di G. Lindbeck) è uno dei compiti sistematici più urgenti: due casi, entrambi legati alla dimensione sessuale. La teologia del matrimonio e la teologia dell’ordine, che devono essere ricostruite sulla base di una nuova comprensione del rapporto tra sesso, identità e genere (le connotazioni biologiche, personali e sociali stanno oggi su un piano diverso da prima). La parità matrimoniale, assunta da meno di 50 anni anche ritualmente, fatica ad essere raggiunta dalla parità ministeriale, che resta pensata in una forma arcaica, lacerata e lacerante. E da qui scaturisce una sorta di “dipendenza” (tossica) del cattolicesimo dalla “società dell’onore”. La identificazione del cattolicesimo con l’ancien régime accade quasi nella comune distrazione.

10. Conclusioni letterarie e cinematografiche e le tre “i” necessarie per reagire. Vorrei finire con due opere d’arte assai utili per meditare sulla crisi del cristianesimo oggi. Si tratta di due “rappresentazioni” di ciò che accadeva in Europa nel 1850 e nel 1950, circa 170 anni fa e 70 anni fa. Il romanzo Hard Times di Ch. Dickens e il film Philomena di Stephen Frears ci presentano un mondo “in altra forma”. Ossia nella forma di una società dell’onore che si sta trasformando in società della dignità. Questo implica la crisi dei modelli familiari, educativi, religiosi, assistenziali, ministeriali. Ciò che era stato fondato sulla “differenza” e sull’”onore” aveva bisogno di essere ricomprenso sulla base della “eguaglianza” e della “dignità”.

Essere “fuori di sé” (che è anche il titolo di un bel libro di Marcello Neri) è un modo con cui diciamo la “perdita della identità statica”. Dicendo “era fuori di sé” di solito ci esprimiamo in un modo che per lo più ci serve a qualificare negativamente il comportamento di una persona. Per il Signore Gesù e per la Chiesa che da lui deriva, nascendo dall’acqua e dal sangue che scaturiscono dal suo costato, essere “fuori di sé” è la cifra sorprendente di una identità non compiuta, ma affidata e sorprendente. Una chiesa “in uscita” può davvero essere se stessa nella coscienza che il Signore è sempre “in uscita”. Perciò la inquietudine, la incompletezza e la immaginazione, di cui la Chiesa deve dotarsi per essere fedele, sono il nutrimento essenziale di ogni buona teologia. La teologia deve rendere conto di una Chiesa chiamata dal suo Signore ad essere “fuori di sé”. Il Signore si lascia vedere solo “nella fede” e perciò sta sempre “in altra forma”. Questo “fondamento” implica una trascendenza a se stessa e una trasgressione di sé che la Chiesa si vede posta come “condizione di fedeltà”.

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