Munera 3/2016 – Emanuela Sabatini >> Il Mosè e Aronne di Schœnberg nella messa in scena di Romeo Castellucci

Vienna 1928. Arnold Schœnberg inizia a comporre il Mosè e Aronne. Tra l’inizio della sua scrittura e il desiderio di riprenderne la composizione: la guerra, l’esilio, la shoah.

Un Dio assente, che si ritrae, così la tradizione ebraica pensa lo tzimtzum, il movimento di allontanamento di Dio, la ritrazione, come traduce Scholem. Nel punto di concentrazione non c’è una qualche sostanza, bensì ‘ain, nulla. Di Dio, d’ora in poi, si potrà parlare solo in modo obliquo, senza referente, senza oggetto, prescindendo dall’essere, pensiero in abisso, così Derrida, che pensa a una religione senza religione. La mistica, il pensiero teologico negativo e il discorso apofatico sono l’altro lato dell’ateismo. Per questo non si tratta di un ritorno a un modello di Altro pienamente consistente e neppure di una assicurazione dall’idolatria, o peggio di un tentativo di strumentalizzare la negatività mistica per salvare Dio. Un Dio senza-Nome costringe ora l’uomo a errare senza fine: non c’è consolazione nel deserto, e la condizione umana è quella di un’insuperabile impotenza, come la chiama Freud, un’umiliazione, come traduce il commentatore medievale della Bibbia Rashi ben Eliezer, quell’abbandono che risuona nel racconto dei Vangeli e ogni volta che il reale fa irruzione nella vita.

Freud e Schœnberg sono entrambi attratti dalla figura di Mosè.

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