La messa, la fede, la carne e il sangue. Libertà di culto tra Vescovi e Lutero


Les_pèlerins_d'Emmaüs_by_Paul_Bril

Nondimeno, la liturgia è culmen et fons” (SC 10)

Voglio spiegare anzitutto perché sento l’urgenza di scrivere qualcosa di chiaro su questo punto delicatissimo e decisivo della nostra identità cristiana, di cristiani della Chiesa cattolica e romana. E cerco di comprendere, anzitutto davanti a me stesso, perché mi ha colpito tanto, stamattina, nella preghiera, riascoltare il grande testo di Gv 6:

“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna”.

Queste espressioni, ascoltate nella liturgia della parola di questa mattina, 1 maggio 2020, sono risuonate con accenti nuovi, singolari e forti. Il contesto che stiamo vivendo, con le sue caratteristiche particolari, le rilegge e le risignifica in una maniera potente. Vorrei provare a ricostruire questo contesto, con altri due testi, che in qualche modo “discendono” da questo. Il primo testo è la frase conclusiva della “Dichiarazione di dissenso” con cui un Ufficio della CEI ha criticato le decisioni comunicate dal Presidente del Consiglio domenica scorsa. Il testo si conclude con questa frase:

“l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale.”

Senza considerare le questioni di merito e di opportunità, qui viene illustrata una sorta di “gerarchia delle fonti”: il servizio deriva dalla fede, e la fede è nutrita dai sacramenti. Dunque i sacramenti nutrono la fede e la fede genera il servizio. Come vedremo, si tratta di una lettura legittima, fondata, ma unilaterale della tradizione. Ma su questo torneremo dopo.

Aggiungo un terzo testo, che traggo da un intervento apparso in questi giorni, con riferimento critico al medesimo Comunicato CEI (Lutero risponde alla CEI) dove i due autori evangelici fotografano la posizione espressa dai Vescovi in questo modo:

“il dovere di celebrare e partecipare alla Messa è essenzialmente dovuto al bisogno di attingere alla sorgente sacramentale necessaria al credente cattolico. In questo testo viene dunque ribadita la concezione sacramentale della funzione ecclesiale, tipica del Cattolicesimo romano”.

E poi cercano di chiarirla ulteriormente così:

“Un buon credente cattolico per poter garantirsi la salvezza (secondo la terminologia biblica), deve durante la sua vita assolvere a tutti i sacramenti”

E’ evidente che, se consideriamo il testo di Giovanni, la ermeneutica dei Vescovi cattolici e la reazione degli autori evangelici, comprendiamo che il problema non sta, come potrebbe sembrare, in una differenza confessionale, ma nel modo con cui intendiamo “riempire” la  categoria inevitabilmente astratta di “libertà di culto”. Ed è su questo che vorrei fermare la mia attenzione.

La contrapposizione “formale”

Tutta la vicenda che abbiamo percorso in questi ultimi giorni, ed anche in questi due mesi, si può spiegare da qui: da questa “differenza”. Davvero i cattolici “partono” dalla eucaristia, mentre gli evangelici partono dalla fede? Io non credo che sia così. E cerco, in queste righe, di dimostrare che questa differenza nasconde una profonda unità, che entrambe le “parti”, per buone ragioni, non riescono a riconoscere. Forse perché, su entrambi i lati del “fronte” siamo stati costretti a rappresentare l’altro (e anche noi stessi) in modo esasperato, forzato, quasi caricaturale. Così è capitato che gli evangelici contestano i cattolici perché mettono “prima di Dio” le loro liturgie, mentre i cattolici rispondono contestando agli evangelici di mettere prima la loro fede in Dio, piuttosto che Dio stesso. In fondo entrambi i fronti sono preoccupati della medesima istanza: che Dio stia prima, e vedono nella liturgia degli uni e nella fede degli altri un “ostacolo”, una “perdita”, una “corruzione”, addirittura una “idolatria”. Dio sostituito dalle liturgie della Chiesa o dalla fede dei soggetti.

Io però, in questo caso, non voglio riflettere su questo piano ecumenico, che pure sarebbe interessante. Mi sta a cuore, invece, mostrare, nei termini più classici del cattolicesimo, che la visione di eucaristia che indirettamente traspare dalla conclusione della Nota CEI non può essere considerata una espressione “classica” del cattolicesimo. Forse lo sarebbe di quello del Concilio di Trento – ma anche su questo avrei qualche dubbio – ma sicuramente non lo è rispetto alla teologia successiva al Concilio Vaticano II.

Due modelli di sacramento

Che cosa è cambiato, con il Concilio Vaticano II, nella liturgia? Direi soprattutto due cose: il ruolo del popolo di Dio e la relazione con la fede. A partire dal medioevo si era affermata – e ancora resiste – una lettura estrinseca del sacramento – quasi una forma magico-strumentale di esso – che lo affidava – come una res – alle cure del “sacerdote”, il quale “rendeva presente” il corpo e sangue di Cristo, comunicando al quale il singolo fedele guadagnava la vita eterna. Questa rappresentazione, in cui sia la azione rituale sia la fede sono spostate quasi totalmente sul sacerdote, e che pone il soggetto all’esterno della azione, come semplice recettore del sacramento, costituisce la visione che il cattolicesimo ha superato da almeno 60. Anche se viene ripetuta da singoli cattolici, da emittenti radio, da qualche giornalista, da qualche politico interessato, e qualche volta persino da vescovi distratti, questa visione è del tutto inadeguata a spiegare l’esperienza sacramentale cattolica.

Il nuovo modello

In che cosa consiste, dunque, la novità? Consiste in un modo di pensare la presenza di Cristo, la funzione della assemblea, il ruolo del ministro e la natura della azione. La celebrazione eucaristica ha due soggetti principali: il Signore che convoca e la assemblea convocata. Il sacerdozio di Cristo corrisponde al sacerdozio comune, proprio di ogni battezzato e quindi di quella assemblea che il Concilio chiama “comunità sacerdotale” (LG 11). La assemblea è presieduta dal ministro ordinato, il cui sacerdozio è ministeriale perché serve Cristo e serve la chiesa. Sta al servizio dei due veri soggetti. Non è l’unico ministro, perché l’assemblea è servita da una molteplicità di servizi, anche se è presieduta soltanto dal ministro ordinato. Tutta questa “compagine bene ordinata”, edificio di pietre vive intorno alla pietra scartata che è testata d’angolo, condivide l’azione di rendimento di grazie, nell’ascolto della parola e nella condivisione orante dell’unico pane e dell’unico calice. Questa liturgia è giustamente detta culmen e fons di tutta l’azione della Chiesa.

Gli equivoci e le opportunità

Se si chiarisce questa dinamica, e si scopre che cosa è in gioco quando si parla di “vita sacramentale”, si comprende la delicatezza del tema e la sua facile deformazione. Nelle cose più importanti della vita di fede la differenza tra verità ed errore resta sempre sottile come un capello (Barth). Dunque sarebbe molto grave se ci lasciassimo convincere dai nostri fratelli evangelici che la posizione cattolica si lascia ridurre ad “assolvere tutti i sacramenti”.  Ma la forza con cui possiamo “convincere” i nostri fratelli di diversa confessione passa inevitabilmente attraverso una accurata “conversione” da parte nostra. Per questo una serie di precisazioni possono essere qui aggiunte:

a) La liturgia non è solo fons, ma anche culmen. Come ho detto, la frase conclusiva del testo CEI ricorre ad una immagine del tutto legittima, assolutamente preziosa, ma di per sé unilaterale, perché dice una verità irrinunciabile, che però è e resta solo “mezza verità”: è giusto ricordare che il servizio nasce dalla fede, e che la fede è nutrita dalla vita sacramentale. Ma, per la Chiesa, è cosa vera e preziosa dire anche il contrario: ossia che la eucaristia presuppone la fede e che la fede nasce nell’incontro con Cristo, che si presenta nel prossimo sofferente. Perciò la liturgia e l’eucaristia non è solo “fons”, ma anche “culmen” (SC 10). E, a conferma di ciò, quando SC introduce ai sacramenti afferma che “non solo suppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono” (SC 59).

b) Che cosa significa, alla luce di queste considerazioni, “libertà di culto”? Il culto cristiano è certamente “azione comune”. Non è “distribuzione di cose sacre”, non è “azione di uno cui altri assistono”, ma “azione comune”. Per questo le perplessità sulle “messe in pandemia” non derivano semplicemente da “decreti esterni” – che possono essere anche percepiti come lesivi della libertà ecclesiale – ma da “esigenze interne”, direi intrinseche al culto cristiano. Abitare con una “azione comune” una Chiesa non è la stessa cosa che “comprare sigarette in una tabaccheria”, “correre sul lungomare” o “fare la spesa al supermercato”. Nessuno di questi luoghi suppone una “azione comune”.  Non vi è soltanto un “impedimento esterno alla libertà di culto”, ma una difficoltà intrinseca a porre la “azione comune” di ascolto della parola e di condivisione del pane e del calice”. Sono azioni consentite solo “in famiglia”. Nella diffidenza non si dà azione comune. Parola e condivisione, per ora, passeranno solo dai luoghi della confidenza. Per godere a tutti i costi del “diritto al culto” rischiamo di contrarre il culto ad “atto individuale”. E rischiamo di farlo anche solo adottando, persino in Chiesa, questo linguaggio formale della “libertà di culto”, che è termine sacrosanto, ma vuoto.

c) “Chi mangia la mia carne e chi beve il mio sangue”: sono le parole che sono risuonate nel vangelo proclamato oggi. Questo atto non ha a che fare con una “cosa”. Entriamo nella dinamica sacramentale quando, facendo corpo nel raduno, lasciando la Parola al Signore, ripetendo con Lui la preghiera di benedizione e riconoscendolo nello spezzare il pane, diventiamo suo corpo e suo sangue. E’ evidente che anche nella “vita sacramentale” il servizio e la fede non sono semplicemente “conseguenze”, ma sempre anche “cause”. Mangiare la sua carne e bere il suo sangue significa entrare, con la fede, nel suo santo servizio: lavare i piedi, curare i malati, ospitare gli stranieri, perdonare i peccati, alimentare la speranza, dire bene piuttosto che male, poter lodare, saper rendere grazie.

d) Proprio questo “mangiare” la carne e “bere” il sangue non è “accedere individualmente alla salvezza contenuta in una cosa sacra”, ma “compiere un gesto comune, spudoratamente familiare, che trasforma la identità in rapporto diretto con il Signore”. E’ interessante che la “manducatio”, il mangiare, sia rimasto sempre, nella tradizione, come atto inaggirabile. Anche la “comunione spirituale” non era affatto “rinuncia al mangiare”, ma passaggio al “mangiare in modo spirituale”. Cosa che, in certi casi, era ritenuta superiore al mangiare sacramentale. Ascoltare insieme la parola e condividere insieme pane spezzato e calice condiviso, nella fede, realizza la Chiesa come discepolato di Cristo e servizio al Vangelo nei poveri e ai poveri nel Vangelo.

Una Chiesa può soffrire molto per la interruzione forzata della celebrazione della messa. Ma sa che il Signore si offre nel rito comune – per ora impossibile alla comunità – per essere nel cuore di ogni uomo e nella vita del mondo. Con la messa divenuta impossibile non ci è sottratto il Signore che alimenta la nostra fede e il nostro servizio, ma è sospeso il linguaggio più elementare e più potente per dirne l’azione nel mondo e nei cuori. Quello più simile alla brezza leggera con cui Dio fa il suo ingresso nel mondo e nella storia, raddrizzando ciò che è storto e scaldando ciò che è gelido. La libertà di culto, la libertà di esercizio del culto cristiano, può trovare, in questo “vai e vieni” tra il servizio e la liturgia, attraverso la fede, i suoi ritmi, di volta in volta. E non sarà impossibile ritornare a celebrare senza troppi vincoli sanitari, se nel frattempo avremo alimentato la fede bagnando ciò che è arido e piegando ciò che è rigido. Perché la liturgia non solo nutre, ma anche è nutrita. Non solo genera, ma anche è generata. Perché il Signore sta alla porta e bussa non solo “sotto le specie”, ma anche aldiqua delle specie e aldilà delle specie.

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