Ecumenismo ed eucaristia: profezia e paura


 

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Due settimane fa sono stato a Bari, presso l’Istituto ecumenico S. Nicola, tenuto dai P. Domenicani, per una conferenza dal titolo. Matrimonio e comunione ecclesiale: questioni classiche e sviluppi possibili in contesto ecumenico. Poiché le cronache ecclesiali recenti hanno registrato, a questo proposito, un dibattito spesso unilaterale e forzato, sia in merito alle iniziative dei Vescovi tedeschi, sia in merito a celebrazioni con importanti aperture ecumeniche, tenute a Milano, credo sia importante riflettere in modo ampio sul tema. Per questo pubblico la parte iniziale e finale della mia relazione, che sarà pubblicata integralmente entro il mese di maggio in un volume curato dallo stesso Istituto Ecumenico S. Nicola. Ecco le prime e le ultime pagine conclusive del mio testo:

 

Matrimonio e comunione ecclesiale: questioni classiche e sviluppi possibili in contesto ecumenico

Io mi domando…condividere la Cena del Signore è il fine di un cammino o è il viatico per camminare insieme? Lascio la domanda ai teologi, a quelli che capiscono. E’ vero che in un certo senso condividere è dire che non ci sono differenze fra noi, che abbiamo la stessa dottrina – sottolineo la parola, parola difficile da capire – ma io mi domando: ma non abbiamo lo stesso Battesimo? E se abbiamo lo stesso Battesimo dobbiamo camminare insieme

(Francesco, Chiesa luterana di Roma, 15/11/20151)

L’orizzonte del dialogo tra le diverse chiese ha permesso anche al cattolicesimo di riconsiderare, direi “in parallelo”, diverse questioni concernenti sia la comunione ecclesiale ed eucaristica, sia il sacramento del matrimonio. Tali questioni anzitutto devono essere accuratamente distinte, e lo faccio in via preliminare nel primo paragrafo (§.1), cui faccio seguire una rapida elencazione delle radici intra- ed extra-ecclesiali di questa nuova prospettiva (§.2), per poi dedicarmi ad una indagine più determinata della questione della cosiddetta “intercomunione” (§.3) e concludere con una visione più complessiva della sfida ecumenica e della sua urgenza per la buona salute della Chiesa cattolica (§.4).

1. Considerazioni preliminari di sfondo

1.1. Il sapere classico della dottrina teologica conosce bene il ruolo che matrimonio ed eucaristia esercitano nella esperienza ecclesiale. Entrambi i sacramenti possono vantare, infatti, un “primato” nella vita dei cristiani: il matrimonio ha un primato “ratione significationis”, mentre l’altro, l’eucaristia, ha “simpliciter” il primato, poiché è il “fine” e “la fine” di ogni compito e di ogni necessità. La tensione tra questi due “primati” è presente in modo sotterraneo in tutta la tradizione occidentale latina. Ciò ha determinato sui due sacramenti conseguenze diverse. Mentre il primato eucaristico, bene o male, è rimasto evidente alla coscienza ecclesiale lungo i secoli, anche se con forme celebrative, spirituali e pastorali diverse, viceversa intorno al matrimonio si sono creati due “filoni” di pensiero e di esperienza, che hanno determinato una oscillazione estrema nelle valutazioni: così lo stesso sacramento ha potuto essere “primo” o “ultimo”, come attesta anche l’elenco classico dei sette sacramenti, in cui il matrimonio normalmente chiude la fila.

1.2. Gli ultimi due secoli non hanno visto mutare soltanto il “vissuto matrimoniale” dei soggetti e delle comunità, ma anche il loro “vissuto eucaristico”. E’ importante acquisire questa visione “processuale” e “dinamica” della dottrina ecclesiale, anche di quella strettamente cattolica, che non è mai un “monolite”. I mutamenti sono legati ad un cambiamento non solo della società e della cultura, ma della coscienza che la Chiesa ha di se stessa. Una nuova rappresentazione dello “sposarsi” e del “celebrare eucaristico” ha profondamente inciso sulle forme ecclesiali, sulla pastorale e sulla spiritualità. E’ sufficiente ricordare che la prima enciclica sul matrimonio è del 1880, da parte di Leone XIII (Arcanum divinae sapientiae) ed è motivata dalla esigenza di affermare la “incompetenza dello stato liberale sul matrimonio”, mentre il papato di Pio X, ai primi del ‘900, ha fatto della “comunione frequente” uno dei fuochi della esperienza cristiana.

1.3. La questione sacramentale si intreccia, nel rapporto tra matrimonio e comunione, con la questione morale e con la questione giuridica e sarebbe un grave errore sia la confusione tra questi livelli, sia la separazione tra di essi. La evoluzione degli ultimi due secoli ha visto, sotto questo profilo, il sorgere di una “competenza esclusiva” della Chiesa sul diritto matrimoniale (con il sorgere nel 1917 del primo CJC) mentre, parallelamente cambiava il modo di vivere la comunione eucaristica, con il sorgere, a partire dal 1905, di una più alta frequenza alla comunione eucaristica. Comunione frequente e conflitto tra stato e Chiesa intorno al matrimonio si sviluppano negli stessi decenni e segnano il percorso della storia cattolica rispetto al parallelo sviluppo differenziato delle altre confessioni, diversamente implicate sul piano giuridico e spirituale.

1.4. In particolare, nell’ultimo secolo, ad una progressiva individualizzazione della esperienza matrimoniale ha corrisposto, paradossalmente, uno sviluppo della dimensione comunitaria e relazionale della comunione. Questo movimento incrociato – ossia la scoperta della coscienza e della storia dei soggetti nell’ambito della comunione matrimoniale e la apertura alle dinamiche comunitarie e partecipative nel rapporto con la celebrazione eucaristica – ha profondamente inciso sulle pratiche e sulle teorie. La considerazione dei “vissuti singolari” in campo matrimoniale e delle “pratiche comunitarie” sul piano eucaristico ha profondamente mutato sensibilità, priorità e attenzioni. La cultura ecclesiale si è trasformata e la dottrina non sempre è stata capace di “stare al passo” di questi cambiamenti.

1.5. Tutto ciò è accaduto in un mondo – anzitutto europeo, ma non solo europeo – nel quale si è passati dalla “società chiusa” alla “società aperta”. Tale fenomeno si manifesta essenzialmente come una società che si fonda non più sul principio di autorità, ma sul principio di libertà. Questo cambiamento determina una serie di conseguenze non lineari: accentua sicuramente una rappresentazione individualistica della esistenza (anche matrimoniale ed eucaristica), ma valorizza nello stesso tempo la originalità e la originarietà della esperienza singolare, aiutando a riscoprire la potenza e la precarietà dei legami. Per questo la cultura tardo-moderna può certamente minare pericolosamente ogni esperienza di comunione, ma può anche superare tutte le false rappresentazioni della comunione basate sulla diseguaglianza, sulla illibertà e sulla indifferenza2.

(ometto i §§ 2. e 3)

4. Alcune conclusioni su ospitalità e intercomunione (una profezia matrimoniale?)

Su questo punto occorre procedere con molta chiarezza, data la delicatezza del tema. Anche in questo caso riassumo in poche affermazioni la serietà e la plausibilità della prospettiva di “ospitalità eucaristica”, non come “eccezione alla regola”, ma come principio di comprensione generale, vorrei dire universale, della cena del Signore. Che perpetua non semplicemente un “atto puntuale” di Gesù, ma uno stile di commensalità e di ospitalità, che era parte costitutiva della sua “dottrina”. Questa “forma di cena”, nella quale “rendiamo grazie al Padre”, è la “forma fondamentale” dell’eucaristia. Intorno a questo “nucleo sistematico della questione” possiamo fare alcune considerazioni finali, che ordino in 6 considerazioni progressive:

4.1. Si tratta, innanzitutto, di affermare la superiorità della “azione eucaristica” rispetto alle condizioni con cui ogni singola Chiesa ha potuto svilupparne una dottrina e una disciplina. Se la stessa “ecclesia” è “de eucharistia” (secondo il bel titolo dell’ultima enciclica di Giovanni Paolo II), ciò significa che non è anzitutto la Chiesa a dover porre condizioni per la eucaristia, quanto piuttosto è l’eucaristia a porre le condizioni per la Chiesa. Sappiamo bene che, nella lunga tradizione degli ultimi 500 anni, proprio su questo punto abbiamo proceduto secondo evidenze e priorità capovolte: abbiamo stabilito condizioni ecclesiali, procedurali, rituali per accedere degnamente all’eucaristia. Ma è stato proprio il “movimento ecumenico” a riscoprire la “autorità” del celebrare rispetto alla comprensione della dottrina. Questo è un punto su cui abbiamo ancora molto da lavorare. Partiamo ancora oggi da un modo di intendere lo stesso ecumenismo in cui “prima si pensa correttamente e poi si può agire validamente”. Questo è un “modello” di realizzazione della comunione che non è affatto ovvio e che merita forse di essere profondamente riconsiderato.

4.2. A ciò si deve aggiungere, quanto alla proposta formulata dalla Conferenza Episcopale Tedesca nel maggio del 2018, che essa riguarda una “comunione eucaristica” che viene resa possibile – in modo singolare e non generale – da un’altra comunione, che è quella coniugale. La “piccola Chiesa domestica”, che è istituita dalla relazione coniugale, di cui ministri sono la coppia dei battezzati, sarebbe il vincolo che, legando una parte cattolica e una parte non cattolica, permetterebbe, a certe condizioni, una comunione eucaristica piena anche se la comunione ecclesiale non è piena. Ma, appunto, qui la “carenza di comunione ecclesiale” riguarda la “grande Chiesa”, non la “piccola Chiesa domestica” che anticipa, profeticamente e nel concreto, la comunione tra le Chiesa. Onorare questi cammini concreti è via di un rinnovato ecumenismo “fattuale” prima che “dottrinale”. Ma perché possiamo permetterci questo sviluppo dobbiamo liberare i concetti teologici da quell’aura “retorica” che li riduce a “espressione clericale” senza forza e senza forma. Basti considerare tutta l’enfasi del discorso sulla “centralità della famiglia” che poi non riesce ad attribuirle, come in questo caso, alcuna vera autorità.

4.3. Se sviluppiamo questo assunto, dovremmo dire che in qualche modo alla carenza di comunione ecclesiale sopperisce la ricca esperienza della comunione coniugale. Il fatto che la parte “non cattolica” sia marito (o moglie) della parte cattolica può essere considerato condizione necessaria – anche se di per sé non sufficiente – per aprire la comunione eucaristica alla sua esperienza, cui è giunto per un “amore all’eccesso” vissuto non nella stessa Chiesa, ma nello stesso amore di cui quella Chiesa vuol essere segno. Questo modo di considerare la tradizione permette di abbassare le pretese verso la ecclesia pensata istituzionalmente come “societas perfecta”, e di alzare invece il volume con cui la Chiesa domestica, nella sua fragilità, può annunciare la profezia della comunione anche in condizioni apparentemente assai svantaggiate. Implica, quindi, un profondo ripensamento del tema “matrimonio”, così come è accaduto nel testo di Amoris Laetitia, che per la prima volta esce dallo “schema ottocentesco” con cui il matrimonio è letto, in modo decisivo, come “campo di esercizio della autorità ecclesiale” in contrapposizione con il “potere dello Stato liberale”. Un ecumenismo che attribuisca al “famiglia domestica” una autorità ecclesiale è costretto a rivedere profondamente lo schema canonistico che dal 1917 domina la comprensione del matrimonio.

4.4. Ora è ovvio che, se si dimentica questo orizzonte coniugale, in cui si inserisce lucidamente la “proposta tedesca”, si ha buon gioco a costruire quella serie di “paralogismi” che sono tanto poco convincenti, quanto più si allontanano dalla proposta concreta. Che non è quella di equiparare le “dottrine” e le “discipline” di Chiese che restano differenziate, ma di poter riconoscere, nonostante questa diversità, che la esperienza di “vincolo coniugale” – in cui natura e cultura già possono convergere – può rendere accessibile la piena comunione sacramentale, sia pure per vie segrete che non è dato conoscere sul piano della dottrina e della disciplina, ma che si rendono accessibili sul piano della esperienza del Mistero, a cui si apre la vita differenziata nel vincolo ecclesiale, ma unificata nel vincolo coniugale. Con il suo linguaggio più elementare e meno definito – nell’ascolto della Parola comune, e nello spezzare il pane e nel condividere il calice su cui si è reso grazie – le Chiesa fanno esperienza “atematica” della comunione. I gesti elementari e potenti, che strutturano la celebrazione eucaristica – ascolto della Parola, preghiera eucaristica, condivisione del pane e calice come corpo e sangue di Cristo – ristrutturano le identità molto più della coscienza dottrinale. L’inconscio rituale è più potente della coscienza dottrinale.

4.5. Va ricordato, poi, che anche in questo caso il percorso previsto dalla “proposta tedesca” si inserisce nello stesso quadro “processuale” previsto recentemente (2016) da Amoris Laetitia per affrontare le “crisi” che il matrimonio può incontrare. E il rifiuto opposto astrattamente a tale proposta ha tutta la apparenza di una radicale incomprensione di queste “proposte processuali”, che riprendono il grande insegnamento del Concilio Vaticano II, per il quale – allora nella assise conciliare, come oggi in questa proposta episcopale – non si trattava di cambiare o innovare dottrina e disciplina cristiana, ma di ritrovare quel terreno del mistero – di Dio e dell’uomo, del Vangelo e della esperienza – su cui può fiorire la fede in Cristo. Mentre secondaria e meno convincente sembra la soluzione “giuridica” che assimila la comunione concessa al consorte di diversa confessione al “caso di morte”. Non si tratta, io credo, che garantire “fughe eccezionali” nella ospitalità rispetto ad una norma inospitale, quanto di garantire che, in presenza di vissuti di comunione coniugale, l’eccezione dovrebbe diventare la inospitalità, e normale sarebbe sempre la ospitalità.

4.6. Per questo lo “scandalo” che i profeti di sventura additano alla attenzione è frutto di uno sguardo strabico: è scandaloso, in effetti, non il fatto che finalmente la coppia confessionalmente “mista” possa essere unita anche nella comunione eucaristica, ma che la istituzione ecclesiale, per salvaguardare se stessa, porti la divisione nel cuore stesso delle famiglie. Se è vero che la Chiesa che vuole comprendere la “gioia dell’amore” ha da imparare ascoltando seriamente le famiglie, ho l’impressione che la autorità episcopale, per crescere nel suo magistero, debba disporsi ad un serio rinnovamento, certo della teologia eucaristica, ma prima ancora della teologia matrimoniale. Per esporsi alle vite, piuttosto che soltanto e sempre disporre delle vite. La relazione tra comunione eucaristica e comunione matrimoniale appare, oggi, un “segno dei tempi”: di fronte al quale la Chiesa docente deve sapersi fare discente, con lungimirante umiltà. E, per così dire, deve disporsi non anzitutto a dare la comunione a chi non ne sarebbe degno, ma a riconoscere che la comunione ecclesiale fiorisce proprio là dove saremmo portati a credere che sia esclusa a priori. Qui vale quanto papa Francesco ha ricordato come principio in EG: ossia il primato della realtà sulla idea. E la resistenza a questa logica, sempre papa Francesco la chiama con il nome di antiche e pericolose tentazioni: neognosticismo e neopelagianesimo sono precisamente quel primato “astratto” e “normativo” con cui la Chiesa, senza saperlo, non permette a Cristo di uscire: egli “bussa” non per entrare, ma per uscire. Anche le questioni ecumeniche risentono profondamente di questo “stile neopelagiano e neognostico”, di cui trasudano spesso le nostre soluzioni “normative” o “dogmatiche”.

Anche per elaborare queste nuove frontiere, il pensiero ecumenico sulla eucaristia ha bisogno di una nuovo modello non solo di teologia, ma di teologo. Esige un teologo dalla “mente aperta”:

“Il teologo che si compiace del suo pensiero completo e concluso è un mediocre. Il buon teologo e filosofo ha un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio e della verità, sempre in sviluppo, secondo quella legge che san Vincenzo di Lérins descrive così: annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate (Commonitorium primum, 23: PL 50,668)”1

Per questo, in conclusione, vorrei tornare alle parole con cui Francesco concludeva la sua risposta, in occasione della visita alla Chiesa luterana di Roma, nel 2015. E’ una conclusione che, tenendosi lontana sia dal principio gnostico di una “soluzione astratta generale” sia dal principio pelagiano di una “normativa che programmi tutto in modo prevedibile”, percorre la via di un “discernimento aperto”, basato più sulla esperienza di ascolto e di condivisione, di dialogo e di partecipazione, che su evidenze dogmatiche o giuridiche ultimative. Ecco le parole con cui vorrei anche concludere, parole che sono direttamente rivolte alla Signora che aveva posto la questione e che meritano grande attenzione, poiché indicano anche uno “stile ecumenico” molto determinato:

Mi diceva un pastore amico ‘Noi crediamo che il Signore è presente lì. E’ presente. Voi credete che il Signore è presente. E quale è la differenza?’ – ‘Eh, sono le spiegazioni, le interpretazioni…’. La vita è più grande delle spiegazioni e delle interpretazioni. Sempre fate riferimento al battesimo: ‘Una fede, un battesimo, un Signore’ così dice Paolo, e di là prendete le conseguenze. Io non oserò mai dare il permesso di fare questo perché non è mia competenza. Un Battesimo, un Signore, una fede. Parlate col Signore e andare avanti. Non oso dire di più”

3I testi di N. Luhmann, A. Giddens possono aiutare a ricostruire accuratamente il mutare delle rappresentazioni della “relazione matrimoniale”, dove vincolo giuridico, sentimento individuale e esperienza di amore si intrecciano in una forma nuova e sorprendente. Cfr. N. Luhmann, Amore come passione, Milano, Bruno Mondadori, 2006; A. Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Bologna, Il Mulino, 2013.

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