Benno Malfèr era un teologo fine: ricordo e compito


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Molte sono state le qualità umane e cristiane di Benno Malfèr, Abate di Muri-Gries, che è mancato improvvisamente il 28 agosto scorso. Un bel ritratto della sua vita è apparso oggi a firma di Maria Teresa Pederiva su SettimanaNews e merita di essere letto con attenzione.

Accanto alle belle caratteristiche di questo amico e collega, vorrei qui ricordare il suo prezioso lavoro teologico, che non è rimasto chiuso in quel decennio (1981-1991) che le biografie riferiscono e che corrisponde al suo insegnamento istituzionale a S. Anselmo, a Roma, come professore di teologia morale. Ben oltre il 1991, per tutti i 26 anni ulteriori, Benno Malfèr è rimasto anche un teologo fine, acuto, aggiornato, capace di elaborare una lettura della tradizione morale e sacramentale cristiana di grande forza,  che forse è necessario conoscere per apprezzare fino in fondo il suo impegno a livello pastorale e monastico, organizzativo e spirituale.

Avevo conosciuto Benno a Padova, penso nel 1990, quando, per un breve periodo, era stato responsabile dei rapporti tra l’Ateneo Anselmiano e l’ILP di S. Giustina. Era succeduto a Magnus Loehrer – che si era ammalato – e dopo breve tempo avrebbe ceduto la mano ad Elmar Salmann. Ma il suo breve mandato fu allora decisivo per impostare il “seminario di dottorato” dell’Istituto padovano, con una logica mutuata dalla tradizione accademica di lingua tedesca.

Da allora a Padova il lavoro accademico sui dottorati si è svolto come sviluppo dei preziosi suggerimenti del P. Malfèr. Che negli anni successivi imparai a conoscere a Roma non solo come organizzatore e coordinatore, ma anche come teologo e come ricercatore. Il suo modo di riflettere sulla tradizione morale e sacramentale era caratterizzato da un approccio maturato nella migliore tradizione europea, cattolica e protestante. La sua teologia era costitutivamente ecumenica, lavorava con i materiali che entrambe le confessioni offrivano al laboratorio di pensiero della teologia. Per questo aveva studiato con grande accuratezza il pensiero morale di F. D. E. Schleiermacher, ma questo non gli impediva di avere tra le sue citazioni preferite passi dai “decreti tridentini” sulla giustificazione e sui sacramenti.

Per questo i suoi corsi su “Sacramenti e competenza morale” e su “Il matrimonio, uno dei sette sacramenti”, che aveva mantenuto a S. Anselmo, anche dopo l’inizio del suo abbaziato, continuavano ad essere laboratori preziosi di idee e di una riflessione tanto pacata quanto esigente e profonda. Il frutto di questo suo continuo lavoro teologico – che lo teneva aggiornato sulla bibliografia più recente e che gli permetteva di mantenere una competenza formidabile sulle questioni più dibattute – lo faceva partecipare con grande efficacia alle riunioni di dottorato della Specializzazione Dogmatico-Sacramentaria, dove S. Anselmo aveva assunto, negli ultimi 20 anni, lo stile che Malfèr aveva introdotto a Padova, 6 anni prima. Nel contesto di questi seminari, l’esame degli schemi, la discussione delle questioni e la valutazione delle impostazioni riservavano a studenti e a colleghi sprazzi di luce teologica e di comprensione razionale difficilmente eguagliabili. La sua capacità di andare immediatamente al cuore delle questioni era diventata proverbiale anche presso gli studenti, che insieme la temevano e la desideravano.

Alcuni eventi straordinari – condivisi con lui e con Marinella Perroni – mi avevano permesso di apprezzare ancor meglio la sua visione ampia e profonda della tradizione: la preparazione del Corso di Teologia Sacramentaria, alla fine degli anni 90, con indimenticabili incontri a Roma e a Montserrat; le tappe di avvicinamento al grande Convegno su Giustificazione e Sacramenti, nel 2001; la recente preparazione del Convegno su Misericordia e Penitenza, in occasione dei 500 anni della Riforma, avevano messo in chiara luce la forza del pensiero e la libertà di giudizio con cui Benno Malfèr aveva fatto sintesi della tradizione cristiana comune. E non vi era mai discorso con lui che non riservasse qualche luce nuova di comprensione e di approfondimento.

Ma in lui la cordialità e la correttezza si sposavano sempre con il rigore e la esigenza di chiarezza. Tutto questo ha reso un grande servizio alla teologia dei sacramenti e ha aiutato gli studenti a concentrarsi su ciò che è primario e decisivo, e a lasciar da parte questioni secondarie o accessorie. P. Benno aveva sempre chiaro, dentro di sé, il motto aristotelico che giudica “rozzo” colui che non sa distinguere ciò che deve essere ricercato rispetto a ciò che non deve essere ricercato. Da Benno, studenti e colleghi, hanno ricevuto luce anzitutto su questa grande distinzione. Che è una delle condizioni fondamentali per una teologia non autoreferenziale, non “di corte”, ma al servizio di una Chiesa viva e libera, che si rapporta con un mondo non pregiudicato da una visuale ristretta e meschina. Nella teologia anselmiana del futuro, dovremo cercare di non perdere le tracce di questo cammino di luce e di libertà. Le impronte della sua presenza a S. Anselmo, le tracce del suo pensiero e le vestigia del suo cordiale rapporto con studenti e colleghi resta un esempio da imitare e da seguire. Anche senza di lui, dovremo cercare di non perdere tutto quello che da lui, in questi anni benedetti di lavoro comune, abbiamo potuto apprendere a nostro vantaggio e trasmettere a vantaggio altrui. E tanto più lo abbiamo trasmetto quanto più lo abbiamo appreso.

Per usare una bella triade, resa famosa da un recente discorso di papa Francesco alla Civiltà Cattolica, anche in P. Benno abbiamo conosciuto una teologia caratterizzata da tre “i”: inquietudine, incompletezza, immaginazione. Sarà compito comune custodire un ricordo di P. Benno come uomo di fede, capace di pensare un cristianesimo necessariamente inquieto, incompleto e ricco di immaginazione. Sono queste le condizioni inaggirabili per quell’atto di discernimento che oggi possiamo compiere grazie al suo limpido rigore e grazie alla sua profonda cordialità.

 

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