Uomini che amano le donne: Rosino Gibellini (di Marinella Perroni)


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Un bel modo di ricordare un uomo che ha sempre favorito il dialogo teologico e l’approfondimento accurato della tradizione è proprio quello di intrecciare un dialogo intorno a lui. Così ho molto apprezzato la iniziativa di Marinella Perroni, che con Elizabeth Green e Alberto Dal Maso costruisce, dialogando, una rievocazione molto profonda della figura e della personalità di Rosino  Gibellini. La ringrazio per aver voluto pubblicare il testo su questo blog. (ag) (nella foto Rosino Gibellini è il primo da sinistra. Si riconoscono al centro del gruppo di teologi, K. Barth e K. Rahner)

Uomini che amano le donne: Rosino Gibellini

di Marinella Perroni

Un giorno – credo nel 2011, ma non sono certa – alla Cittadella di Assisi, non sapendo dove sedermi per il pranzo, mi trovai a tavola con un signore distinto e attempato con modi di fare di altri tempi. Un vero gentleman, insomma, che si presentò come Rosino e col quale (superfluo dirlo) conversai di gran gusto”.

Queste parole di Elizabeth Green, teologa e pastora battista, mi hanno spinto a comporre un ricordo di p. Rosino Gibellini che, in qualche modo, rispecchiasse la sua costante ricerca di dare voce all’inedito. Ho chiesto allora ad Alberto Dal Maso, redattore della casa editrice Queriniana, e alla stessa Green di fare memoria insieme di questo intellettuale, che ha reso grande la teologia italiana, non scrivendo un panegirico ma, semplicemente, “raccontandolo”. E, soprattutto, facendo capire perché noi teologhe italiane proviamo nei suoi confronti una grande gratitudine

MP: In tanti abbiamo avuto modo di incrociare Gibellini, di percepirne la qualità umana e intellettuale, ma avere con lui un rapporto professionale, lavorare gomito a gomito sugli stessi progetti, pur con ruoli diversi è un’altra cosa …

ADM: Sono stato assunto in Queriniana nel 1998, sicché ho conosciuto il Gibellini ultrasettantenne, quello più riflessivo, meditabondo. Non il giovanotto che in qualche foto in bianco e nero si vede sbucare da dietro Karl Barth, in fondo a un codazzo di teologi. Non il personaggio più sicuro di sé che in una istantanea affianca Karl Rahner, intrattenendolo in un confronto a tu per tu. Non il cinquantenne che, nel 1979, partecipa in prima persona alla conferenza del CELAM a Puebla insieme a p. Bartolomeo Sorge. No: davanti ai miei occhi di giovane redattore è comparso dapprima il Rosino della maturità che si concedeva con parsimonia e severità, tranne quando era entusiasta di poter rivendicare: «Io c’ero». Certo: dietro la sua chioma canuta e disordinata indovinavi a volte il sessantottino, dietro certe impuntature nervose potevi scorgere le zampate del fiero leone che era stato. Ma poi, col passare degli anni, quella figura è impercettibilmente sfumata nell’anziano saggio, rallentato nei movimenti, più accondiscendente, più incline nel raccontarsi – sempre con grande consapevolezza di sé.

MP: Per quel poco che ho potuto conoscere di lui e nonostante sia stato con me sempre molto cordiale, non doveva avere un carattere facile.

ADM: Non era il tipo che ti incoraggia, benigno, con una pacca sulla spalla.

Non era paterno, nel senso più affettuoso del termine. Era piuttosto spigoloso, freddo, tutt’altro che espansivo. Direi imperativo. Mi incuteva un timore reverenziale. In fin dei conti era un uomo “vecchio stampo”, a cui una rigida formazione aveva inculcato di non esternare i sentimenti, di non mostrare mai alcuna debolezza. Di tanto in tanto, però, era irascibile. Negli inconsueti momenti di profonda irritazione, dava in escandescenza e urlava in faccia a chi era lì presente, incutendo un sacro terrore. Di fronte alle frustrazioni più gravi, specie se impreviste, sbatteva i piedi con rabbia, metaforicamente ma non troppo: e lì – mentre a te le gambe tremavano – indovinavi il bambino solo e ferito nell’orgoglio che lui era stato, figlio unico di mamma Clementina, una madre single in pieno Ventennio fascista, per la quale nutriva una stima infinita.

MP: Forse per questo lui ha prestato particolare attenzione al pensiero e al lavoro teologico delle donne. Noi teologhe femministe abbiamo sempre avuto uno spiccato senso per l’importanza della genealogia, siamo attente a riconoscere coloro che hanno aperto la strada, ci hanno precedute e ci hanno sostenute e possiamo dire che Gibellini è parte integrante della nostra biografia collettiva di teologhe.

EG: Come in qualche genealogia della Bibbia, di solito tutte al maschile, spunta a volte il nome di qualche donna, anche nelle loro genealogie intellettuali che le donne si affaticano a ricostruire, spunta il nome di qualche uomo. Rosino Gibellini è uno di loro. Dobbiamo alla sua lungimiranza e alla sua apertura di mente e di cuore come direttore della Queriniana che, pochi anni dopo la loro pubblicazione all’estero, siano approdate in Italia le prime opere dell’allora nascente teologia femminista in ambito sia cattolico che protestante. Scelte oculate le sue in quanto un’antologia come quella curata da lui insieme a Mary Hunt, La sfida del femminismo alla teologia (1980) riporta alcuni saggi fondamentali per la riflessione femminista ancora – dobbiamo dire purtroppo – attuali. Il libro della teologa protestante Letty Russell, Teologia femminista (1977), lametteva in relazione con la teologia della liberazione, altro filone che Gibellini si affrettava a pubblicare nonostante non fosse del tutto gradito alle gerarchie ecclesiastiche.

ADM: Amico di tante donne, lo era di pochi e scelti uomini. Nelle donne e nel loro pensiero, anche teologico, vedeva il futuro. Alla sua istintiva apertura di credito verso il mondo femminile, nulla era estraneo quanto il disprezzo tipico di certo mondo clericale. Anzi: ammirava e apprezzava con grande rispetto e curiosità l’operato delle donne, le loro lotte. E questo, all’epoca, richiedeva coraggio: era una scommessa per nulla vincente, aveva elementi di innovazione al limite dello scandaloso.

EG: Non possiamo certo sottovalutare il fatto che proprio lui abbia fatto uscire la teologia femminista da quell’apartheid a cui viene sempre condannata: la teologia femminista e chi la esercita non ha vita facile in nessun paese, e l’Italia non fa certamente eccezione. Rosino Gibellini ha capito che la grande storia del pensiero teologico è fatta sia di figure di primo piano sia di una pluralità di scuole accademiche, ma anche di filoni che sono nati e sono andati crescendo all’interno della vita. Per questo, grande conoscitore della teologia del secolo breve, nel suo monumentale Teologia del XX secolo (1992), non tralascia di dedicare un capitolo alla teologia femminista, tema che verrà di nuovo proposto nello sguardo che getta in Prospettive teologiche per il XXI secolo (2003) sul millennio appena iniziato. Né si può dimenticare il suo impegno nella pubblicazione della rivista Concilium che ci ha fatto conoscere voci piccole e grandi della teologia internazionale sui temi più disparati, incluso, per molto tempo, la teologia femminista nelle sue molteplici sfumature.

ADM: D’altra parte, Gibellini poteva contare su una curiosità sconfinata, a 360 gradi e su una memoria di ferro, prodigiosa. Mitici i suoi taccuini, sempre pronti nella tasca della giacca, con cui prendeva appunti in ogni occasione usando una matitina: o per uno spunto offerto da una lettura, o per una intuizione estemporanea. Il suo quadernetto di appunti era lo schermo di un radar perennemente acceso: bastava una telefonata dalla Germania, un riferimento sentito per caso alla tv, la bacheca di una chiesa sudamericana, una recensione sul Sole24Ore, una mostra su van Gogh, una osservazione arguta a un convegno, e lui scriveva. Si annotava nomi e date, soprattutto. Oppure parole-chiave. Che poi diventavano libri, se non collane editoriali. Era assetato di conoscere la visione del mondo altrui, sempre avido di confronto e di sperimentare nuove prospettive, che gli facevano provare gioia e stupore. Che lo facevano correre veloce, con l’occhio e con la mente, sempre sul pezzo prima degli altri (editori e non), battendoli sul tempo. Ma stupiva me, giovane redattore, con la profusione di riferimenti a fatti e persone o con la conoscenza mirabolante del catalogo editoriale – da lui stesso costruito – fin nei minimi dettagli. Era un concentrato di memoria storica. Chi l’ha conosciuto, assicura che più dei verbali degli anni passati, per le riunioni del board internazionale di Concilium valeva il suo rendiconto delle decisioni assunte in origine. Adorava poi viaggiare fuori dai confini nazionali, conoscere nuove culture, muoversi come un libero battitore, incontrare gente originale, sbirciare nelle loro librerie e nelle loro biblioteche, assaporare la buona tavola e il buon vino dei Paesi che visitava.

MP: E, tornato in Italia, si sforzava di spalancare le finestre e far cambiare aria, sprovincializzando il nostro piccolo mondo antico. Si interpretava forse come un ponte, fra noi e il resto del mondo.

ADM: Si teneva costantemente aggiornato sulle ultime tendenze: della teologia, ma non solo. Insieme alla lettura dei quotidiani, per lui la settima arte era una impareggiabile fonte di conoscenza: per annusare le tendenze di costume, per tenersi allineato con i temi che attraggono il grande pubblico. Il suo radar interiore non smetteva di monitorare la situazione, lo spirito del tempo, per “intercettare” (ecco il verbo che tornava più spesso sulle sue labbra) luoghi teologici insospettabili – anche secolari. Aveva uno sguardo aperto sulle cose, ecumenico: sapeva ragionare da cosmopolita. Questo suo respiro universale lo portava a relativizzare molte piccole beghe di casa nostra, evitando di cadere in facili provincialismi. «Quali sono le lingue parlate da più persone, al mondo?». Le lingue straniere, usate vuoi con eleganza, vuoi con sfacciata pronuncia maccheronica, gli servivano per costruire relazioni. Questo diceva la sua caparbietà nell’arrivare ad ogni costo là dove nessun altro osava spingersi. In maniera persino poco ortodossa, se era il caso.

MP: Ma il suo assoluto erano certamente i libri e, forse, la sua prima ragione di vita. Erano la sua unica missione. Erano anzi parte di lui, imbricati nel suo essere. Come un concertista quando è tutt’uno con il suo strumento.

ADM: Con i libri aveva un rapporto fisico, magnetico, prima ancora che intellettuale; oserei dire un rapporto sensuale: «I libri per me sono come le donne per gli uomini: quelli belli è difficile che mi lascino indifferente. Anzi: non me li lascio sfuggire!». Ma i suoi interessi si estendevano oltre. Non era per sfoggio di erudizione, ma per autentica passione che citava opere d’arte, spaziando dal Rinascimento ai contemporanei: «Nel 2013 mi sono gustato una monografica su Edward Hopper al MoMA di New York: indimenticabile!». Amava altresì la musica classica e frequentava cinema e cineforum cittadini.

Aveva però un’etica del lavoro, più che teutonica oserei dire tutta piamartina, che lo rendeva instancabile nel partorire, seguire, accompagnare in prima persona i tanti progetti editoriali. Quando aveva investito su un particolare progetto e ne era convinto al massimo, non riusciva a trattenere una urgenza, una certa impazienza. Lo voleva bell’e pronto, ma anche perfetto fin nei dettagli. Si metteva cioè in moto una pulsione di desiderio per lui irrefrenabile. Perché amava quel precipitato di cultura e di teologia che si condensava nei libri.

MP: Le volte che ho avuto occasione di parlarci ho percepito con estrema chiarezza che per lui il lavoro teologico non era mai neutrale, mai anonimo né rarefatto. Avrei quasi voglia di dire che per lui la teologia non poteva che essere militante.

EG: Basterebbe anche solo dire che, nella strada in salita che comporta la teologia femminista, lui non ha mai rallentato il passo.

ADM: Forse in passato era stato un rivoluzionario. Sessantottino e quasi incendiario: me lo immagino con il capello arruffato e indosso l’eschimo. Polemico con l’autorità quando non degna di stima. Aveva un tratto sovversivo: a suo tempo fece delle battaglie perché «Dopo la Rivoluzione francese non è più possibile che uno si chiami “superiore” di altri: non ci sono sudditi, sottoposti. Tanto meno in un ordine religioso». Era un teologo di parte, ma rispettava l’altra linea di pensiero. Non per una sorta di cerchiobottismo pseudo-ecumenico, ma per lasciare adito al dibattito, al confronto nella diversità delle posizioni. Rivendicava di aver edito Infallibile? tanto quanto Il complesso antiromano. Meditabondo, taciturno, rifletteva fra sé e sé, silenzioso, a fondo. Poi a un certo punto, anche a distanza di giorni, lo vedevi illuminarsi: un guizzo negli occhi, un bagliore scintillante. E arrivava – sicura – la decisione. Raramente dunque agiva d’impulso: però il tasso di genialità e di intuito puro che aveva nel sangue a volte lo induceva a gettare il cuore oltre l’ostacolo, anche contro i consigli delle persone vicine.

MP: La morte ci impone, però, di prendere congedo…

EG: Saluto allora p. Gibellini con affetto e riconoscenza per ciò che coraggiosamente ha fatto sperando che altri e altre accoglieranno il testimone che ci ha lasciato.

ADM: Non sarà facile continuare sulle sue orme. Serviranno coraggio e visione: come li ha mostrati lui, ma interpretati da noi, per il nostro tempo. Questo però è il momento della gratitudine nel ricordo. Perché è stato un privilegio averlo avuto come mentore. E tutto questo, adesso, viene avvolto da una nebbia fitta di nostalgia.

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