Munera 3/2022 – Editoriale

Il politologo Angelo Panebianco, intervenendo al seminario di studio La possibilità e il compito di una “quarta sociologia della religione italiana”, svoltosi all’Università Roma Tre il 13 giugno 2022 e organizzato dalla Sezione di Sociologia della Religione dell’Associazione Italiana di Sociologia, ha osservato che attualmente c’è una tregua nell’ecumenismo, giacché non si registrano novità e nessuno fa nuove mosse. Anche il ruolo che avrebbero potuto giocare le confessioni cristiane nel presente conflitto russo-ucraino è venuto meno, lasciando spazio, invece, a recriminazioni reciproche. Lo stesso pontificato di Bergoglio è in atteggiamento di attesa, nonostante le numerose dichiarazioni di principio. Insomma, più che di tregua, forse è giusto parlare di stallo, di mantenimento delle posizioni. Ciò prelude a uno sviluppo che comporta un logoramento vicendevole delle parti in causa, proprio come sta avvenendo fra Russia e Ucraina.

Intanto, però, qualcosa si sta muovendo, a livello di influenza del modello ecclesiale ortodosso nei riguardi della tradizione cattolica. In effetti, la reiterata insistenza di papa Francesco sul ricorso alla sinodalità nella gestione della Chiesa è anche, sia pure indirettamente, una sorta di riconoscimento di un valore ideale e comportamentale che è stato tipico, almeno sinora, del mondo ortodosso, pur così variegato nelle sue differenziazioni.

E non è che, a voler dire tutto, la sinodalità sia, per gli ortodossi, un dato scontato e, soprattutto, vincente e privo di contraddizioni, come mostrano le diversità di vedute all’interno e all’esterno dei vari patriarcati, fra Mosca e Kiev, fra Mosca e Costantinopoli e così via. Peraltro, il patriarcato ecumenico di Costantinopoli gode del privilegio e del prestigio di presiedere l’incontro dei vescovi, detto concilio, ma non ha alcun potere sugli stessi vescovi, che governano Chiese autonome, autocefale, molto connotate nazionalisticamente. Le passate vicende ci raccontano una straordinaria complessità di rapporti intessuti nella comune cultura religiosa ortodossa, con strascichi tuttora evidenti nelle distinzioni peculiari che connotano tutti i patriarcati e le loro nazioni di riferimento.

Nonostante le difficoltà di individuare soluzioni efficaci, ossia, come su suole dire, best practices nell’ambito delle esperienze di matrice ortodossa, nondimeno si propone ancora una volta, ma adesso con particolare insistenza, il sistema sinodale quale modalità prioritaria per la vita stessa delle comunità ecclesiali, più che per la loro conduzione meno verticistica rispetto al passato.

Va tuttavia precisato che il carattere prettamente religioso della sinodalità la distingue da altre formule di condivisione e partecipazione, per cui non si è in un contesto politico, dove i processi decisionali avvengono sulla base di una procedura più o meno codificata, con passaggi prestabiliti, da un livello decisionale a un altro. E neppure si ha a che fare con decisioni peculiarmente economiche, che sovente sono assunte sulla base di calcoli approssimativi, sensazioni superficiali, persino giustificazioni cabalistiche, in vista di un agognato, ma difficilmente raggiunto, profitto segnatamente economico o finanziario. Nemmeno è un contesto sindacale, dove vi è la difesa, quasi a spada tratta, di un interesse del prestatore d’opera, da sostenere in ogni sua possibile istanza, attraverso un confronto serrato con il datore di lavoro e comunque tendente al rialzo, con l’obiettivo di condurre in porto il miglior risultato possibile.

La sinodalità ha una sua peculiarità nettamente religiosa, che prescinde da interessi precostituiti, di parte, e punta piuttosto al bene comune e non al vantaggio meramente individuale. In altri termini, il pensare e il decidere in chiave sinodale sono ben diversi da altre operazioni similari, che avvengono altrove e per altre finalità.

Occorre dare per scontata una tale configurazione speciale della sinodalità, che è finalizzata alla realizzazione degli scopi di una particolare religione, non esclusa quella cattolica, invero un po’ restia nel farsi carico di tale inusitata esperienza di interventi da parte di tutti, senza terreni riservati per le gerarchie, ma in aperto confronto alla pari, fra tutte e tutti. Ma – si obietterà – una tale modalità mutatrice dello status quo non sarà considerata accettabile e si troveranno soluzioni alternative, rimedi sostitutivi e scappatoie di varia natura.

Vi è, inoltre, il problema della formazione alla sinodalità. Coloro che se ne dovrebbero occupare e preoccupare non hanno certo un interesse precipuo ad avviarla, convinti – come sono – che quanto già in atto sia il meglio possibile. Qualche ordinario diocesano, infatti, risponde che esistono già i consigli pastorali parrocchiali e diocesani, i consigli di unità pastorale, quelli presbiterali, quelli congregazionali e le altre forme partecipative previste dagli ordinamenti vigenti. E così si resiste al nuovo, che non decolla, e si preferisce il vecchio, che è più rassicurante, poiché – in linea di massima e fatte salve talune eccezioni – non porrebbe problemi di sorta.

La tecnica del rinvio, quella del rallentamento e quella della sottovalutazione portano tutte a non implementare il dettato sinodale e a posporre l’esercizio della sinodalità.

Tocca dunque ai laici, con il supporto di qualche pastore illuminato, creare le premesse per l’avvio della sinodalità, per troppo tempo sopita, messa a tacere, dimenticata. Ora la volontà stessa di un Papa ha reso attuale la discussione sulla sinodalità. Ebbene, l’occasione è propizia, ma gli ostacoli, come si è detto, non mancano. Né si può prendere esempio dai fratelli ortodossi, giacché la loro storia, pur apprezzabile, non è sempre edificante, sebbene non manchino prove esemplari di una sinodalità piena e vissuta a livello episcopale e di comunità di fedeli. Per i cattolici, in questo, appaiono rilevanti alcuni documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II: la Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium al punto 57 (sulla concelebrazione nei sinodi); il Decreto sulle Chiese Orientali Cattoliche Orientalium Ecclesiarum ai punti 1 (sulla stima per le Chiese Orientali), 9 (sul riconoscimento dei Patriarchi e dei loro sinodi), 19 (sull’affidamento della normativa per le feste a Sinodi patriarcali o arcivescovili) e 23 (sul diritto del Patriarca con il Sinodo di regolare l’uso delle lingue nelle celebrazioni); il Decreto sull’Ufficio Pastorale dei Vescovi nella Chiesa Christus Dominus ai punti 5 (sul Consiglio propriamente chiamato Sinodo dei Vescovi), 35 (che contiene 6 diversi principi fondamentali riguardanti i Religiosi tutti, poi quelli dedicati all’apostolato esterno, l’esenzione dei Religiosi dalla giurisdizione dei Vescovi per quanto concerne l’ordine interno degli Istituti, la dipendenza di tutti i Religiosi dal Vescovo, la collaborazione fra Istituti Religiosi e clero diocesano e fra Vescovi e Superiori religiosi), 36 (sulla ripresa dei Sinodi e dei Concili provinciali e plenari), 37 (sulla cooperazione tra i Vescovi) e 38 (sulla Conferenza Episcopale); il Decreto sull’attività missionaria della Chiesa Ad gentes al punto 29 (sulla sollecitudine per l’attività missionaria nel rispetto del diritto delle Chiese Orientali).

Quali potrebbero essere i caratteri di una sinodalità ben intesa?

Non può essere il frutto di una programmazione dall’alto, magari imposta per obbedienza o con forme paternalistiche. Si potrebbe trattare, semmai, di un’esigenza sentita e promossa dal basso, pensata e motivata, rispettosa ed efficace, senza arrière pensée.

A dire il vero, non esiste un progetto di sinodalità ben definito e perfetto per sempre. Si tratta di un processo che va costruito lentamente ma costantemente, con insistenza ed efficienza, a livello di piccole comunità o di grandi insiemi, con la leadership in corso, ma non contro di essa.

I diversi obiettivi e gli specifici passaggi di implementazione non sono scritti da nessuno e da nessuna parte come vincolanti e unici. Anche in questo caso la creatività è necessaria, anzi fondamentale, perché non vi sono al momento best practices da additare all’ammirazione di tutti.

Frattanto, sul piano operativo la Chiesa che è in Italia ha già avviato il primo anno di cammino sinodale, almeno in 206 diocesi (su un totale di 225), dove hanno operato, dal 17 ottobre 2021, 40.148 gruppi e probabilmente ancor più, con un coinvolgimento di circa 500 mila persone. È stato definito un «buon inizio», nonostante una perdurante difficoltà nei mesi invernali a causa della recrudescenza della pandemia di coronavirus. Vedremo che cosa succederà nel secondo anno di “ascolto con metodo narrativo”. L’invito di Francesco, quasi sette anni fa a Firenze, riguardava l’approfondimento sinodale di Evangelii gaudium, la prima esortazione apostolica del nuovo pontificato.

Tutto era cominciato probabilmente già alla fine del primo Sinodo dei Vescovi, durato dal 19 settembre al 28 ottobre 1967, allorquando il patriarca Atenagora ricambiò, il 26 ottobre 1967, la visita che gli aveva fatta Paolo VI, per cui si ebbe una ripresa vigorosa della collaborazione fra le Chiese sorelle.

Il vero problema è, ora, quello di fare un salto di qualità fondamentale, passare cioè a una prospettiva di sinodalità non più e non solo fondata sulla confluenza collaborativa fra presuli quanto, invece, basata su una sorta di sinodalità estesa e tale, comunque, che abbracci l’intera comunità ecclesiale, in una dimensione realmente inter pares e senza impedimenti alla comunicazione, con una gestione non verticistica delle consultazioni e delle discussioni sui temi di volta in volta sottoposti alla riflessione condivisa, sincera, franca e non reticente. In definitiva, un ascolto di Dio e del suo popolo.

Roberto Cipriani

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