Munera 3/2018 – Paolo Benciolini >> Parlare della morte e del morire. Riflessioni sul “fine-vita”

A subitanea et improvvisa morte, libera nos, Domine. È difficile riconoscersi, oggi, nello spirito di questa invocazione che si ritrova nelle Litaniae Sanctorum. Molti, anzi, si augurano proprio il contrario: che il momento della morte possa loro giungere in maniera “subitanea e improvvisa”, un passaggio rapido da una condizione di benessere alla perdita della vita.

Accade invece che il grande e incalzante progresso della medicina e, in particolare, la disponibilità di strumenti terapeutici sempre più efficaci, nel consentire un rilevante incremento delle aspettative di vita, ha comportato anche, come effetto paradossale, l’aumento e il protrarsi nel tempo delle malattie proprie (anche se non esclusive) dell’età anziana, non necessariamente incompatibili con la sopravvivenza. Al tempo stesso le tecniche di terapia intensiva hanno introdotto possibilità di sopravvivenza fino a pochi decenni fa del tutto impensabili, rendendo tuttavia necessarie forme di assistenza socio-sanitaria particolarmente impegnative e spesso coinvolgenti tutto il nucleo familiare, non solo in relazione al numero crescente di “grandi anziani” che ne abbisognano, ma anche per persone in età ancora giovanile, vittime di eventi traumatici o di gravi patologie acute.

Chi, da sano, ne è diretto testimone, partecipando affettivamente alla spesso lenta, ma non per questo (anzi) meno drammatica vicenda della persona cara, non può fare a meno di porsi domande che lo riguardano anche personalmente ed è perciò ampiamente comprensibile il desiderio di augurarsi una diversa e meno dolorosa prospettiva. I sociologi (ma lo possiamo facilmente constatare anche noi) ci dicono che il tema della morte è il nuovo tabù che caratterizza la nostra società (dopo la scomparsa di quello del sesso) e che anche le esperienze di malattia che conducono verso la morte vengono vissute come qualcosa di cui non si parla volentieri con gli altri.

Non era così, un tempo.

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