Munera 2/2018 – Maria Antonietta Crippa >> Città martiri nel mondo

Un testo rimasto incompiuto di Hannah Arendt cattura, in due passaggi, un problema che dovrebbe essere oggi al centro dell’attenzione ma che, pur latente, non mobilita la nostra coscienza a causa del disorientamento e della smemoratezza in cui viviamo. Dapprima la studiosa afferma: «Quando le bombe atomiche caddero su Hiroshima, ponendo bruscamente fine alla seconda guerra mondiale, il mondo fu scosso da un sentimento di orrore. Quanto quell’orrore fosse legittimo, all’epoca non era dato saperlo».  Occorreva infatti tempo per comprendere a fondo cosa implicava, sul piano delle responsabilità, l’invenzione della bomba con la quale l’uomo aveva catturato, nella fissione dell’atomo, un segreto dell’ordine del cosmo per porlo al proprio servizio.

Poche righe dopo, aggiunge: «Gli strumenti di violenza necessari alla distruzione sono creati per così dire a immagine e somiglianza degli strumenti di fabbricazione, e la strumentazione tecnica di ogni epoca li comprende entrambi in ugual misura […]. La forza che distrugge il mondo e gli usa violenza è ancora la stessa forza delle nostre mani che usava violenza alla natura, e che distruggeva una cosa naturale – ad esempio un albero per ricavarne il legname e fabbricare un oggetto di legno – per formare il mondo. Il fatto che la facoltà di distruggere e quella di fabbricare si bilancino non ha però valore assoluto. Intanto vale solo per ciò che è fabbricato dall’uomo, non per la sfera meno tangibile, ma non per questo meno reale, delle azioni umane nate dall’agire in senso lato».

L’esito più alto di tale largo agire è per lei la polis, convivenza tra uomini diversi ma capaci, nel dialogo, di libera e non violenta persuasione reciproca.

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