Munera 1/2022 – Paolo Branca >> Se la speranza fugge i sepolcri, la rimpiazza la fede?

«La morte non ha bisogno di Dio, è Dio che bisogno della morte». Quante volte amici laici, agnostici o dichiaratamente atei, mi hanno detto questa frase, talvolta con un tono di lieve sufficienza, ma li ringrazio comunque perché mi hanno indotto a riflessioni che altrimenti non avrei fatto. Come contraddirli? Per molti “credenti” il timore della «fatal quiete», più fatale che quieta evidentemente, ha potuto giocare un ruolo non secondario nell’avvicinarli alla fede, o almeno alla speranza di un Aldilà. Tuttavia, si tratta di un approccio superficiale, persino banale a ben pensarci. La fine (come l’inizio, del resto) di ogni cosa, compresa la nostra vita, è iscritta inesorabilmente nella dimensione dello spazio-tempo in cui ci troviamo. Ed è bene che sia così: viste la presunzione se non l’arroganza di troppi che pur sanno che un giorno dovranno lasciare tutto, non so immaginare le dimensioni mostruose che potrebbero assumere altrimenti.

Ma questa considerazione “moralistica” non mi appaga.

Il Cantico dei Cantici afferma: «forte come la morte è l’amore / tenace come l’inferno è lo slancio amoroso. / Le sue vampe sono fiamme di fuoco / una fiamma del Signore» (Ct 8,6-7). Pur trattando, e non certo unicamente in forma metaforica – come invece troppa esegesi ha fatto – dell’amore fra un uomo e una donna, il Cantico sarebbe svilito da un’interpretazione “romantica”. La morte ci atterrisce perché è la fine di tutto e forse – nel caso di alcuni (i migliori?) – perché ci induce a disperare di rivedere persone e cose che ci sono care più di noi stessi. Come, dunque, l’amore potrebbe esse «forte come la morte»? Unicamente per un lancinante, ma incerto, desiderio?

Credo, invece, che l’amore ci spaventi ancora di più: se la morte sembra annientarci, l’amore è l’unica cosa che può trasformarci, la più impegnativa, faticosa, dolorosa di ogni altra, eppure la più feconda. Forse per questo il celebre poeta Eliot ebbe a scrivere: «Aprile è il mese più crudele…», in quanto il risveglio anche della natura, a primavera, comporta molta, ma muta, sofferenza.

Anche l’innamoramento, che dura quel che dura ma non sempre si spegne, matura e passa dalle emozioni e dall’inconscio (che – dubito – alcuna Intelligenza Artificiale potrà mai riprodurre) a comportamenti, scelte, responsabilità liberamente assunte e mantenute che possono durare anche oltre l’orizzonte terreno.

Si può essere scettici, e con non poche ragioni, ma la fredda e precisa razionalità non saprebbe spiegare troppe cose. Accudire il o la partner, i piccoli, e non per poco tempo, saranno anche istinti primordiali per la conservazione della specie, ma si deve essere ben limitati per non comprendere che, a differenza di altre creature, noi non mangiamo, ma ci nutriamo e che abbiamo elaborato non solo una conoscenza, ma un’arte della convivialità; non solo nasciamo, ci sposiamo, moriamo… ma questi passaggi di stato sono da sempre ritualizzati e accompagnati da simboli, cerimonie, partecipazione collettiva, che purtroppo sbiadiscono davanti alla loro gestione medicalizzata, consumistica e tecnologica, fin quasi a scomparire dall’orizzonte degli eventi quotidiani, rendendoli più solitari, vacui o carichi di timori non altrimenti gestiti, celebrati o esorcizzati.

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