Sillabo, sinodo, sessualità: alcune relazioni pericolose


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In una dei suoi ultimi post sul Blog “Des moines et des saints” (del 6 novembre 2019) il p. Ghislain Lafont dedicava una riflessione acutissima alle relazione tra il pensiero di J. H. Newman e Pio IX (qui). Tra i punti di contatto tra il papa e il cardinale c’era la condanna del liberalismo. O, almeno, del liberalismo negativo. Ma proprio qui, io credo, la tradizione cattolica è rimasta con la testa nel XIX secolo. Ciò che nel 1865 era ritenuto un punto acquisito della coscienza cattolica – ossia la condanna risoluta e netta di ogni concezione del “fondamento popolare della autorità” – e che risalta con forza sia nel dettato del Sillabo, sia nelle appendici alla Apologia pro vita mea” di J. H. Newman –  oggi è diventato un ostacolo sempre maggiore al rapporto con il mondo contemporaneo. Qui credo che vi sia un passaggio delicatissimo della coscienza ecclesiale cattolica. Che resta sostanzialmente tradizionalista se non elabora come si deve questo passaggio. La prova più evidente di questa delicata elaborazione si trova non solo e non anzitutto a livello politico, ma a livello di “amministrazione della giustizia” e di “esercizio del magistero”. La rappresentazione della autorità come “unificata in una sola persona” (vescovo e/o papa) implica una lettura della società e delle relazione sociali in cui il “dito di Dio” viene mediato da strutture e da organi pensati secondo l’Ancien Régime. Senza trascurare la differenza della Chiesa dalle altre formazioni sociali e istituzionali, occorre mettere in luce la difficoltà che discende da questa confusione. Proviamo ad identificare bene la questione con due esempi:

a) Chi amministra la giustizia?

La recente riforma del Libro VI del CJC ha messo in luce un equivoco pesante: se si vuole perseguire il reato di “abuso su minore” bisogna mettere a punto una categoria di “reato contro la persona” che non sia mediata in modo troppo radicale dal Decalogo”. La dignità originaria di ogni uomo – che è contenuta anche nel decalogo, si intende – esige un linguaggio che non confonda “peccato contro il decalogo” e “crimine contro la persona”. Se non si opera questa chiarificazione, si produce una “mancanza di giustizia” che il sistema non riesce ad elaborare, né sul piano procedurale, né sul piano sostanziale. Senza una certa “divisione dei poteri” neppure la Chiesa riesce a collegare giustizia e Vangelo.

b) Chi dice la verità sul sesso?

Una cosa analoga accade con il discorso sul sesso. L’idea che vi sia una “autorità sovrana” che può dire la verità sul sesso indipendentemente dalla esperienza, dalle culture e dalla evoluzione storica introduce elementi di rigidità e di sordità che progressivamente causano una perdita di rapporto tra la dottrina e la realtà. Questo stato di minorità, però, non è soltanto un esito occasionale, ma è il frutto di un “metodo errato” nel pensare la relazione tra autorità e popolo di Dio. Una relazione soltanto “discendente”, in cui il popolo non ha nulla da dire di autentico e di originario sul tema, causa l’isterilirsi della autorità magisteriale, che così può pensare di attingere alla Parola in modo sempre meno ricco e senza l’aiuto della esperienza per popolo di Dio.  Recenti documenti della autorità ecclesiale (il Responsum della CDF e la Nota della Segreteria di Stato) offrono testi nei quali è evidente che la autorità legge le parole della tradizione senza la dovuta esperienza della realtà, offrendone una versione senza respiro, povera e tendenzialmente fondamentalistica.

Ecco allora la questione: se il popolo non partecipa alle decisioni, anche sul piano istituzionale e dottrinale, la tradizione diventa meschina. Lo strumento del Sinodo è forse l’unico per ora a disposizione, con limiti strutturali assai evidenti. Una riforma del Codice di Diritto Canonico dovrebbe concentrarsi sulla elaborazione di strumenti più adeguati, che possano assicurare due obiettivi:

– una certa “divisione dei poteri” anche all’interno della Chiesa

– una partecipazione del popolo alle decisioni, in campo disciplinare e dottrinale.

Senza questi passaggi strutturali, la custodia del Vangelo, che resta cosa meravigliosamente complessa, sarà affidata a meccanismi vecchi, paternalistici e sottratti ad un vero controllo.  La sessualità – che è implicata sia nell’abuso penale sia negli orientamenti omosessuali – se viene trattata solo “funzionalmente”, o in rapporto al comandamento o in rapporto alla natura, manca di quella esperienza che permette la rilettura adeguata della tradizione. Un difetto istituzionale diventa così lacuna dottrinale e carenza disciplinare. La sinodalità e i suoi necessari sviluppi hanno dunque a che fare con la natura della dottrina e con la evoluzione della disciplina. Alimentando il sospetto verso le forme democratiche di gestione del consenso, si resta sostanzialmente piantati nella lettura eretica della modernità offerta dal Sillabo: questo non è un grande aiuto ad una Chiesa in uscita. E sono proprio le istituzioni, le loro procedure, a risentire anzitutto di questa comprensione inadeguata.

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