L’ autocritica di “Amoris Laetitia” e i “diritti dell’Omo” di Gianni Baget Bozzo


BagetBozzo2020

Luigi Accattoli, alcuni mesi fa, ha raccolto con bella intuizione una serie di articoli di Gianni Baget Bozzo e li ha pubblicati in un libro che si intitola “Per una teologia dell’omosessualità. Gli scritti del prete e politico di Genova che anticiparono Papa Francesco“, ed. L. Accattoli, Milano, Luni Editrice, 2020. Il volume attesta la lucidità ben nota del presbitero, dell’uomo politico, dell’uomo di cultura e del teologo, sempre estremo nella intelligenza e folgorante nella radicalità, ma capace di porre già negli anni ’90 questioni che oggi sono diventate assolutamente urgenti. Più che una recensione, vorrei proporre un breve ragionamento, basandomi su uno degli articoli del libro. Ma inizio dal “fatto di attualità” che rende questo testo oggi ancora più prezioso: ossia dal “responsum sulla benedizione delle unioni omosessuali” del 15 marzo, per scorgere nella “autocritica” che AL ha offerto della “pastorale familiare” e in un testo magisteriale del 92 il contesto nel quale possiamo leggere con frutto un capitolo del libro di Baget-Bozzo. Ma andiamo per ordine.

a) I limiti del responsum

Come da più parti si è notato, il testo del responsum, insieme al chiarimento che lo ha accompagnato, risulta condizionato da un concetto di “natura”, di “sacramento” e di “benedizione” non sufficientemente chiariti. La “teologia della omosessualità” che ne deriva è troppo rozza (nel senso che manca di distinzioni). Questo non deve stupire: si tratta di un campo del “sapere” e di “esperienza” che abbiamo potuto amministrare per secoli secondo giudizi e pregiudizi in consonanza con la società e con la cultura. Uscire da una lettura della omosessualità come “peccato contro la castità” non è semplice. Ma è proprio la “consonanza con la cultura premoderna” a creare i maggiori imbarazzi e a suggerire soluzioni apparenti. Ma in analogia con quanto AL ha detto a proposito della “pastorale matrimoniale”, viene oggi considerato un passaggio prezioso elaborare una lettura nuova che preveda una serie di “autocritiche” per andare avanti. Proviamo a richiamarlo brevemente.

b) La esigenza di un ripensamento della tradizione secondo AL

Il secondo capitolo di Amoris Laetitia, sotto il titolo “La realtà e le sfide delle famiglie” (31-57), ci accompagna in una analisi piuttosto articolata della realtà familiare contemporanea. La lettura del reale diventa principio non solo di “critica del mondo”, ma anche di “autocritica ecclesiale”. La Chiesa si pone di fronte al mondo in un atteggiamento lucido e umile. In tale confronto fa emergere ciò che del mondo deve essere valutato criticamente alla luce della Parola e ciò che di fronte al mondo e alla Parola di Dio la Chiesa deve riesaminare nel proprio comportamento. E’ evidente, infatti, che lo svolgimento di una “critica del mondo contemporaneo” è un tema classico della pastorale familiare, soprattutto negli ultimi 2 secoli; lo sviluppo di una “autocritica”, invece, appare come un punto nuovo, qualificante, ma anche spiazzante. Dopo decenni in cui ci si limitava, molto spesso, ad una severa critica del mondo con strumenti apologetici, l’esercizio di una lungimirante autocritica – con le conseguenze di riforma di disciplina e di conversione dei cuori che essa determina ed esige – sembra essere una strada molto più impegnativa ed anche piuttosto impervia.

Per questo ritengo molto utile richiamare queste “nuove esigenze” nella forma di un Decalogo di autocritica della pastorale familiare. Il punto centrale di questa preoccupazione è rappresentato dai paragrafi 35-37 della Esortazione Apostolica.

c) Un “Decalogo di autocritica”

Ecco la serie di “dieci parole” che alimentano non solo il versante “critico”, ma anche quello “autocritico”:

1. La sterile denuncianon ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa” (AL 35)

2. La pretesa normativa: “Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità” (AL 35)

3.Le ragioni e le motivazioni di una scelta: occorre “presentare le ragioni e le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia, così che le persone siano più disposte a rispondere alla grazia che Dio offre loro” (AL 35)

4. Modi inadeguati di esporre le convinzioni e di trattare le persone: “a volte il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo, per cui ci spetta una salutare reazione di autocritica” (AL 36)

5. Squilibrio tra fine unitivo e fine procreativo: “spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione” (AL 36)

6. Un accompagnamento inadeguato delle nuove coppie: “Non abbiamo fatto un buon accompagnamento dei nuovi sposi nei loro primi anni, con proposte adatte ai loro orari, ai loro linguaggi, alle loro preoccupazioni più concrete” (AL 36)

7. Astrattezza e idealizzazione teologica: “Abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario” (AL 36)

8. La presunzione di autosufficienza della dottrina: “Per molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie, consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro vita insieme” (AL 37)

9. Il matrimonio concepito più come atto che come rapporto: “Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita” (AL 37)

10. Non sostituire, ma formare le coscienze: “Stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle” (AL 37).

Queste aperte considerazioni, che rileggono la storia della pastorale familiare di fronte alle sfide del mondo contemporaneo, non nascondono le esigenze di conversione dei cuori e le esigenze di profonda riforma della disciplina. L’annuncio della comunione in Cristo, che si realizza nell’amore matrimoniale e familiare, esige una assunzione drammatica della tensione tra libertà e autorità, tra comunione e separazione, tra riconciliazione e divisione. La società tardo-moderna dischiude nuove libertà autentiche, ma propone nuove forme di schiavitù insidiosa. Al soggetto individuale, che può diventare strutturalmente autoreferenziale, tuttavia non può essere contrapposta una dottrina segnata da autoreferenzialità ecclesiale. Al possibile delirio soggettivistico del mondo non si potrà mai opporre efficacemente un autoritarismo oggettivistico della Chiesa. Se la società aperta è una delle condizioni della più autentica personalizzazione della coppia, del matrimonio e della famiglia, allora una rilettura della intera tradizione ecclesiale, a partire dalle Scritture, secondo una più lucida composizione di esigenza istituzionali e di esigenze personali sarà in grado di offrire, anche alle prossime generazioni, una sintesi convincente del senso della tradizione matrimoniale, della vita d’amore, della relazione di coppia e della sua proponibilità in vista di una vita buona e felice. Senza disperazione e senza presunzione, ma alimentando quella speranza che è la più vera risposta alla profezia cristiana sull’amore.

d) Un testo magisteriale del 1992 e la tutela dei “locatori”

 

Proviamo ora a considerare uno dei testi che ha provato a posizionarsi nei confronti del fenomeno “coppie omosessuali” e rispetto al quale dobbiamo essere capaci di autocritica. La commistione di “spirituale” e “temporale”, insita nelle forme di vita, esige categorie di discernimento più sottili. Se si crea confusione, se si sovrappongono le cose, la Chiesa è la prima a fare le spese della sua mancanza di distinzioni. Prendo l’incipit di un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1992, “Alcune considerazioni concernenti la risposta a proposte di legge sulla non discriminazione delle persone omosessuali”, di cui sottolineo solo le parole finali, che suonano assai singolari:

Recentemente, in diversi luoghi è stata proposta una legi­slazione che renderebbe illegale una discriminazione sulla base della tendenza sessuale. In alcune città le autorità municipali hanno reso accessibile un’edilizia pubblica, per altro riservata a famiglie, a coppie omosessuali (ed eterosessuali non sposate). Tali iniziative, anche laddove sembrano più dirette a offrire un sostegno a diritti civili fondamentali che non indulgenza nei confronti dell’attività o di uno stile di vita omosessuale, possono di fatto avere un impatto negativo sulla famiglia e sulla società. Ad esempio, sono spesso implicati problemi come l’adozione di bambini, l’assunzione di insegnanti, la necessità di case da parte di autentiche famiglie, legittime preoccupazioni dei proprietari di case nel selezionare potenziali affittuari“.

Come è evidente, la mancanza di distinzioni sistematiche all’altezza della sfida sembra imporre al documento l’esigenza di “tutelare”, nello stesso tempo, troppe cose, tra loro troppo diverse: altra cosa è “adottare un figlio”, altro è “insegnare”, altro è “ottenere una casa” e altra è “affittare un appartamento”! In tal modo, pur senza averne una diretta intenzione, il documento diventa apertamente e scandalosamente discriminatorio. Come si può sentire il bisogno – in quanto Chiesa – di tutelare le “legittime preoccupazioni dei proprietari di case nel selezionare potenziali affittuari”? Una buona teologia qui permetterebbe di non cadere in errore. E di salvare i fenomeni oltre che di offrire i giusti chiarimenti. Invece una forma di “apaideusìa” – di rozzezza e di mancanza di distinzioni – non riesce a distinguere e crea confusione tra piani necessariamente diversi. Di qui la memorabile reazione di Baget Bozzo.

e) La reazione del 1992 e quella del 2021

Gianni Baget-Bozzo, di fronte a quel testo, perse le staffe. Non è difficile ammirarlo per la sua reazione radicale. Perciò scrisse l’articolo per la rivista “Panorama”, che mise un titolo ad effetto: “Diritti dell’Omo” (pp.82-84).  Al centro vi è una duplice tesi: da un lato la “difficoltà della Chiesa a posizionarsi di fronte al tema della omosessualità”; dall’altro la determinazione ecclesiale ad intervenire non sul lato “spirituale” ed “ecclesiale”, ma su quello civile della questione. La contrarietà ad ogni riconoscimento civile della relazione omosessuale viene identificato con una vera e propria “discriminazione”. Dopo quasi 30 anni la posizione del responsum, che è certo diversa da questa, non sfugge anch’essa alla critica di Baget Bozzo. Anche oggi, se leggiamo bene il testo, vediamo che la questione non è semplicemente ecclesiale, ma sistematica e culturale. La “benedizione” appare “illecita” perché sarebbe un modo di “accettare il male” e di avvalorarlo pedagogicamente. Per Baget Bozzo questa posizione “può condurre al razzismo”, perché non distingue tra “volontà di contraddire la legge naturale” e “condizione di naturale diversità”. Le pagine di Baget Bozzo, come sempre brillanti, aiutano a cogliere tutta la delicatezza della questione, che lega a doppio filo teologia e istituzione, chiesa e cultura.

Se un documento della Congregazione pensava, nel 1992 – non nel 1792 –  di dover tutelare i “padroni degli appartamenti da affittare” rispetto alle “pretese degli omosessuali”, ciò dimostra che allora mancavano i criteri di discernimento e di valutazione; e le parole “imprecise” diventavano spesso parole ingiuste e parole che feriscono. E oggi? Che cosa sappiamo dire, oggi, sul riconoscimento delle unioni omosessuali? Possiamo pensare di restare “scissi” tra affermazioni astratte di rispetto e pratiche concrete di emarginazione? La lettura del testi di Baget Bozzo, per quanto datati, può aiutare il cammino ecclesiale a maturare migliori distinzioni, per uscire da una crisi dovuta ad “apaideusìa”. Alla “imprecisione concettuale” – che è sempre frutto di inerzia e di timore –  si può rimediare con un paziente lavoro di nuova formulazione teorica e di nuove disposizioni pratiche. Non è vietato essere creativi, come sempre siamo stati lungo la storia. Anzi, la via è obbligata.

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