Crescita inclusiva: l’Italia è ancora in coda


Nei giorni scorsi è uscito l’ultimo rapporto del World Economic Forum, The Inclusive Growth and Development Report, che riporta la classifica di 112 paesi al mondo con riferimento alla crescita inclusiva definita utilizzando una serie di variabili fondamentali, quali l’istruzione, il lavoro, la casa, l’inclusione finanziaria, la corruzione, i servizi fondamentali nonché i trasferimenti fiscali.

Ero molto indecisa se riprendere i risultati di questa classifica, perché l’Italia ne esce ancora una volta strapazzata, occupando le ultime posizioni in quasi tutte le categorie citate. Nei giorni di gran festa per la bellissima impresa delle due tenniste italiane, Flavia Pennetta e Roberta Vinci, mi sembrava infatti di cattivo gusto fornire informazioni poco incoraggianti sul nostro paese. Ma alla fine ho pensato che le due italiane sono l’eccezione che conferma la regola e che in fondo i risultati che analizziamo ribadiscono quanto siano importanti l’impegno, la serietà, la tenacia di tutti, proprio quelle doti che hanno portato le due tenniste – oltre alle loro indubbie capacità fisiche  – sulla vetta del mondo sportivo mondiale.

Occorre innanzitutto chiarire che la crescita inclusiva – definita come la crescita economica sostenibile in un significativo periodo di tempo, riferita a numerosi  settori economici, che crea opportunità di lavoro per un gran numero di persone e riduce la povertà – si valuta in relazione sia alla velocità sia alle modalità con cui la crescita economica si realizza.

I drammatici effetti della recente crisi economica e finanziaria hanno evidenziato la necessità di cercare un nuovo modello di sviluppo. È ormai scontato che il mero obiettivo della crescita del PIL pro capite non è più sufficiente per raggiungere un adeguato soddisfacimento delle esigenze sociali. Il significato stesso di tale rapporto risulta oggi inadeguato per cogliere appieno il valore dell’attività produttiva svolta in una paese in un determinato periodo di tempo.

Sono ormai numerose le occasioni nelle quali anche il Papa ha espresso la sua preoccupazione per il diffondersi delle disuguaglianze ed ha chiesto la collaborazione di tutti per un miglioramento su questo fronte. Non ripetiamo i dati relativi alla crescente concentrazione della ricchezza e alla minore mobilità sociale (si veda il nostro blog di agosto). In relazione al legame fra inequality e crescita economica, ricordiamo che una maggiore uguaglianza non comporta affatto una minore crescita economica, tutt’altro.

Secondo il rapporto WEF (traduco pressochè letteralmente) “il nostro paese deve fare i conti con un elevato livello di corruzione e una misera etica nel business e nella politica, fra le peggiori nelle economie avanzate, con pesanti implicazioni in molte aree della vita sociale. La disoccupazione è elevata e accompagnata da un consistente numero di lavori part-time involontari nonché da lavoratori in condizioni di lavoro irregolari e vulnerabili. La partecipazione delle donne nelle attività lavorative è “estremamente bassa”, anche a causa di un gap retributivo che è uno dei più consistenti fra le economie avanzate. La creazione di nuove imprese è molto limitata e ciò limita le opportunità di impiego. Infine, un sistema di protezione sociale che non è né particolarmente generoso né efficiente si aggiunge ad un crescente senso di precarietà e di esclusione nel paese”.

La descrizione è impietosa. Posto che tutti i 112 paesi analizzati, nessuno escluso, devono migliorare in una o più aree, la posizione dell’Italia risulta meno “fragile”, ovvero si colloca in posizioni più elevate, solo nella tutela del lavoro degli anziani e nella tutela della maternità. In particolare, nella classifica riferita alla percentuale dei lavoratori che hanno più di 65 anni, l’Italia si colloca al 5° posto su 30 paesi appartenenti alla categoria “Advanced Economies”; nonché con riferimento al numero di giorni pagati per maternità il nostro paese si colloca al 4° posto (su 24 paesi), ma al 13° su 15 paesi con riferimento al “paid paternity leave” (ovvero al numero dei giorni di assenza dal lavoro che possono essere chiesti dal padre alla nascita di un figlio). Mentre il risultato riferito alla maternità mi sembra di indubbio valore, ho qualche riserva sul precedente per gli evidenti riflessi sulla disoccupazione che può comportare fra i giovani.

Con riferimento all’intermediazione finanziaria (cioè alla disponibilità ed all’utilizzo di servizi finanziari), l’Italia si colloca all’ultimo posto; al penultimo in particolare sia nell’inclusione finanziaria sia nell’intermediazione a sostegno degli investimenti delle aziende.

Evito di riportare le altre classifiche, poiché i risultati sono analoghi. Questa analisi non riporta nulla di nuovo, ma si tratta di una nuova sferzata che ci deve spingere a non abbassare la guardia, anzi a fare di più, a mettere mano all’aratro – come ci diceva Giorgio La Pira (si veda il Terebinto) – con ancor più vigore, ciascuno nel proprio, piccolo o grande, campo nel mondo.

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