Munera 1/2016 – Francesca Simeoni >> L’inquietudine come compito evangelico. La Chiesa italiana dopo il Convegno di Firenze

Nasce negli anni Settanta, sulle tracce aperte dal Concilio Vaticano II, la prassi dei Convegni ecclesiali nazionali, una prassi tutta italiana, sorta per impulso della Conferenza Episcopale. Da allora sono stati cinque i Convegni: un appuntamento che ogni dieci anni intende fare il punto proprio sull’attuazione ecclesiale, all’interno del perimetro storico-geografico italiano, dell’incompiuto Concilio. Un evento che vuole porsi in una storia e in un contesto.

Le parole usate dal card. Antonio Poma nell’invito del 1976 suonano decisamente invariate quarant’anni dopo: «La consapevolezza di essere entrati in una nuova era della storia umana (GS, 4), le ripercussioni degli avvenimenti del mondo, che come onde del mare avvolgono e scuotono la Chiesa stessa (Ecclesiam suam, 28), la celebrazione del Concilio Vaticano II hanno provocato un moto di riflessioni e di prospettive, e di verifica nelle nostre Chiese» al fine di capire «come essere nel mondo, pur non essendo del mondo; quale debba essere la presenza della Chiesa, perché sia ‘lievito’ (GS, 40), ‘segno e strumento di unità’ (LG, l), ‘solidale con il genere umano’ (GS, 1)». Il 31 ottobre 1976 Paolo VI accolse i convegnisti in San Pietro e nella sua omelia li invitò «ad un ripensamento della missione nel mondo contemporaneo, ad una coscienza religiosa autentica e nuova, ad un confronto col vertiginoso mondo moderno, anzi ad un dialogo».

L’invito è lo stesso, quarant’anni dopo, a Firenze 2015: ricollocarsi nella storia della Chiesa italiana, nella continuità della rottura del Concilio, nella Storia della quale sempre siamo invitati a scrutare “i segni dei tempi”.

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