Summorum Pontificum abusus: negazionismo conciliare e blocco ecclesiale


burke

La pubblicazione del MP Traditionis Custodes ha sollevato un giusto dibattito intorno al precedente Summorum Pontificum, che nel 2007 aveva introdotto l’assetto liturgico e normativo ora abrogato. La prima cosa che annoto è che oggi, dopo TC, è possibile quel dibattito che SP aveva spesso evitato o addirittura censurato. Ma ancora più interessante è considerare un fatto di grande rilievo: ossia il tendenziale “abuso” che ha caratterizzato l’uso di SP. Prima di esaminare due effetti sorprendenti di questo “abuso”, non voglio dimenticare che l’uso stesso di SP era viziato da petizioni di principio che oggi riconosciamo come profondamente distorte. il “primato delle cose sacre per le generazioni anteriori” e il “parallelismo tra diverse forme del medesimo rito romano” hanno di fatto minato l’uso di SP. Di questo ho già parlato nei post precedenti. Ciò che ora invece mi sembra giusto sottolineare è che SP è stato utilizzato per introdurre abusi gravi all’interno del corpo ecclesiale. Vorrei presentare i due principali.

a) Summorum Pontificum come “criterio” delle nomine episcopali

Una cosa che sorprese molto, a partire dal 2007, fu il fatto che si fosse considerato il “favore a SP” come un criterio per scegliere i candidati all’episcopato. Curiosa modalità di apprendistato: solo coloro che avrebbere rinunciato al controllo della liturgia nella propria diocesi sembravano adeguati a diventare vescovi. Qui, come è evidente, è chiaro che SP non è stato utilizzato “liturgiae causa”, ma come strumento di normalizzazione ecclesiale. Di fatto, se decidi che l’ossequio a SP diventa criterio di “episcopabilità”, diffondi nel corpo ecclesiale una sorta di “irrilevanza del Concilio” che può arrivare a quel “negazionismo conciliare” che ha caratterizzato il primo decennio del nuovo millennio. Ciò implica, inevitabilmente, una sorta di effetto “a cascata”: se nomini vescovi solo coloro che non hanno alcun problema ad ammettere l’uso del VO, indirettamente favorisci anche una certa inclinazione dei luoghi di formazione, guidati da questi vescovi, a favorire una formazione “parallela” anche degli stessi seminaristi. In questo  modo SP, che è nato per rispondere ad una condizione di fatto, si è trasformato in un grande incentivo ad una carriera espiscopale “senza custodia” della tradizione. Ed è stato molto triste vedere qualche monsignore, alcuni teologi e qualche prete correre a celebrare in VO per non impedirsi una dignitosa promozione. Questo uso di SP è stato un abuso, che abbiamo patito, a livello universale, per quasi un decennio. Arrivando a casi limite: ad un amico bravo prete, i generosi giornalisti specializzati in veline, arrivarono ad “aggiungere parole finali” al suo articolo su SP, per non impedirgli la possibilità di essere nominato vescovo…per fortuna non se ne fece nulla.

b) Summorum Pontificum sottratto al dibattito

Appena uscito, SP mostrava problemi di impostazione teologica e di gestione giuridica grandi come una casa. Ma l’impatto sul dibattito ecclesiale fu assolutamente minimo. Molti teologi e quasi tutti i canonisti si limitarono a ripetere quanto vi era scritto, con rassegnazione e distacco, senza esercitare alcun vero lavoro di intelligenza critica. Ricordo un episodio piuttosto significativo, accaduto all’Ateneo S. Anselmo. Con altri colleghi avevamo sollecitato l’Ateneo ad esercitare il giusto controllo critico sul testo. Ma dal Vaticano giunse la raccomandazione, singolare, che tutto avvenisse a due condizioni: porte chiuse e assenza di studenti. Non rinunciammo a svolgere un bel seminario tra docenti. Ricordo, in quella occasione, due discorsi illuminanti. Le parole di Sebastiano Paciolla, che mostrò le contraddizioni giuridiche ed istizionali di SP, e di Enrico Mazza, che mise in luce la fragilità liturgica e sistematica della “doppia forma del medesimo rito”. Curioso fu che di questo dibattito fosse raccomandato non si facesse parola all’esterno.  Quanta differenza tra il clima di 14 anni fa e quello di questi giorni! Un libero dibattito ha sostituito una sorta di censura preventiva, che ha condizionato sensibilmente la elaborazione di un “sapere ecclesiale” all’altezza della sfida. Che non riguardava anzitutto la liturgia, ma la riforma della Chiesa e la necessaria collaborazione tra magistero dei pastori e magistero dei teologi.

c) I custodi della tradizione, i giuristi e i teologi

Vi è una ironia sottile nel titolo “Traditionis custodes”: la restituzione della autorità sulla liturgia ai vescovi è stato il punto ecclesiologico decisivo del nuovo MP. SP aveva invece non solo “sottratto il potere” ai vescovi, ma era divenuto anche un criterio decisivo per la nomina dei vescovi stessi. Quando avvengono passaggi di questi tipo, occorre che la tradizione ecclesiale sia custodita non solo dai vescovi, ma da tutto il popolo di Dio e dal lavoro teologico e giuridico, che ha e deve avere una sua autonomia di giudizio. Se i teologi hanno taciuto, se i giuristi hanno semplicemente descritto le norme, senza giudicare fatti e conseguenze, la tradizione ne ha sofferto. Leggendo il testo di TC appare evidente non solo che l’uso di SP è terminato, ma che l’abuso di SP viene ora apertamente denunciato e superato. Non avremmo perso 14 anni se tutti, nei limiti della loro autorità, avessero detto e fatto quanto era in loro potere, senza temere né di vedere compromessa la loro carriera, né di uscire dal “gioco di specchi” che SP, ben al di là delle intenzioni per cui era nato, aveva gradualmente introdotto. Proprio per la teoria di cui si alimenta, SP non riguarda soltanto la liturgia, ma la Chiesa intera. Così, nelle mani maldestre di chi lo ha amministrato, al centro e in periferia, è diventato uno strumento pericoloso per affermare e diffondere quel negazionismo conciliare e quella paralisi ecclesiale dalla quale abbiamo il compito non facile di liberarci.

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