Quando un Papa canonizza un linguista


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Dopo il MP Magnum Principium, una riflessione sul valore delle “lingue popolari” diventa non solo possibile, ma necessaria. La traduzione è di nuovo riconosciuta come condizione della tradizione. In questo brillante intervento lo storico e teologo Ubaldo Cortoni, monaco camaldolese e professore a S. Anselmo, rilegge con grande sintesi l’importanza del recente documento alla luce della storia moderna e medievale. E una citazione di Anselmo suggella una riflessione sulla svolta che papa Francesco ha saputo imprimere alla tradizione, canonizzando un gesuita linguista.

Il “greco della terra” ovvero quando un Papa canonizza un linguista

di UBALDO CORTONI

È davvero singolare scoprire che ancora oggi si possa prendere le parti di una tradizione con la “t” minuscola, come la “s” di quella storia con la quale alcuni si intrattengono, saldamente ancorata ad una theologia perennis, «uguale dappertutto, in tutti i tempi e per tutti gli uomini», che Jürgen Moltmann smaschera appellandosi al saggista e linguista francese George Steiner1, per il quale ogni trasmissione è una traduzione, il cui compito è quello di rende insolitamente familiare ad un destinatario, spesso culturalmente lontano, un contenuto che prima gli era estraneo.

Ovviamente mi si obbietterà che con la traduzione molto dell’originale rischia di andare perso, ma credo che sia più rischioso perdere completamente l’opportunità di comunicare, trasmettere e così permettere alla Verità, formulata inevitabilmente secondo i canoni di una cultura, di poter incrociare le verità di altre culture, per poi incontrarle.

È indubbio che la traduzione abbia permesso alla chiesa di crescere e radicarsi nei Nuovi Mondi. Un esempio per tutti il problema affrontato dai Gesuiti nel XVI sec. con l’evangelizzazione delle coste del Brasile attraverso «un’efficace traduzione, al tempo stesso, del messaggio evangelico e delle sue categorie linguistiche (occidentali), ma anche della cultura (linguistica) indigena che avrebbe dovuto permettere di veicolarlo, con il minor numero di malintesi, presso le culture indigene americane»2. Da ciò prese corso la “lingua generale della costa” o “greco della terra”, che nell’intenzione di coloro che la codificarono avrebbe aiutato quelle popolazioni ad appropriarsi di categorie filosofiche, teologiche e politiche a loro sconosciute, ma che nella realtà diede corso ad una cultura che avrebbe riletto la tradizione occidentale attraverso le categorie già in loro possesso. La grammatica del tupì venne stesa nel 1595 da José de Anchieta, l’apostolo del Brasile, il primo gesuita spagnolo canonizzato da papa Francesco, un missionario e linguista, che scriveva contemporaneamente in portoghese, castigliano, latino e tupì.

Una Babele benedetta, quando la pentecoste delle lingue permette una teologia in traduzione per una chiesa in transizione, qual era quella dopo la scoperta delle Americhe: una chiesa che pensava di aver raggiunto i confini del mondo così d’aver portato a termine il suo compito da molto tempo, e che invece alla fine di un secolo (12 ottobre 1492), che avrebbe segnato comunque la storia di quei mondi, si ritrovava a dover ricominciare da capo, portando l’annuncio del Vangelo ad un’umanità non solo a lei sconosciuta, ma addirittura ignorata.

Ma andando ancora più indietro nel tempo è con la celebrazione del sinodo di Venezia, il quale anche se fosse solo un’invenzione dell’agiografo di san Cirillo, rappresenterebbe comunque uno dei primi tentativi di difendere l’uso della lingua di un popolo nella liturgia rispetto all’irrigidimento della chiesa carolingia sulle lingue del Titulus crucis, e cioè le lingue che componevano la tavoletta posta sopra la testa del Crocifisso: latino, greco ed ebraico, che al tempo di Gesù non erano altro che la lingua dell’amministrazione, della koiné e del popolo. All’interno di questa storia José de Anchineta non è che uno degli ultimi di quegli apostoli che, dal sec. VIII all’XI, hanno portato l’annuncio del Vangelo incontrando culture e tradizioni attraverso le loro lingue, scritte e non.

Anche questa è Tradizione, e credo che in questa direzione si muova il Motu proprio Magnum Principium di papa Francesco, perché nuovi mondi possano ancora e sempre accostarsi a quella Verità, che – pur rimanendo la stessa – accetta di compromettersi con il linguaggio, perché il mistero non sta nella forma che può assumere una tradizione, quanto nel narrare al mondo il mistero della dispensatio Christi, o se si preferisce dell’economia salvifica, che arriva alla vita dei credenti attraverso il linguaggio liturgico, e che forse oggi rappresenta l’ultima forma di evangelizzazione dell’Occidente, giacché l’umanità che si profila all’orizzonte rappresenta quei nuovi mondi. Affidare alle conferenze episcopali il compito di promuovere e vigliare sulle traduzioni significa riconoscere il valore imprescindibile delle culture nelle quali la chiesa si radica, e allo stesso tempo avvallarne una nuova spinta missionaria.

Una nota prudenziale della chiesa medievale, con la quale molti identificano una certa tradizione, era quella di indicare accanto alla Scrittura e ai Padri, anche una regula fidei, della quale però era restia a definire il contenuto specifico, fatta salva la fede nella cristologia calcedonense (cf. gli studi di Jean Leclercq sulla cristologia nel medioevo monastico), per il semplice fatto che ogni chiesa, perché particolare, specialmente in una struttura sinodale come quella altomedievale (cf. lo studio di Yves Congar sull’ecclesiologia altomedievale del 1968), avrebbe dovuto rispondere di volta in volta alle problematiche che interessavano quello specifico popolo di Dio.

Per rendere l’idea in modo più semplice, ma sicuramente non meno controversa, è il tentativo del domenicano Yves Congar di parlare di Tradizione e Tradizioni, restituendo al suo lettore l’immagine di una chiesa, che come come un corpo vivente, assume le caratteristiche specifiche della latitudine in cui nasce, cresce e si radica, senza per questo perdere alcun tratto specifico dell’essere persona o dell’essere chiesa (la dimensione della missione ha rimesso in discussione molte delle certezze della chiesa europea).

Ma con ogni probabilità la tehologia perennis, da cui dipende anche una certa visione della tradizione, affonda la sue radici in un equivoco nato con il recupero tridentino dell’approccio teologico di Gregorio VII e Innocenzo III; questo equivoco nasce in seno ad una chiesa, quella delle rinascite carolingia, ottoniana e gregoriana, che confonde unità e uniformitas, quest’ultima garanzia di univocità che avrebbe dovuto dettare le condizioni dell’appartenenza alla chiesa.

Esemplificativo di questo processo è lo scambio epistolare tra Anselmo d’Aosta e Warlam vescovo di Naumburg: quest’ultimo lamentava con Anselmo il fatto che «sui sacaramenti della Chiesa, altro ritiene la Palestina, altro l’Armenia, altro la nostra [liturgia] Romana, e la Gallia Tripartita, anche il mistero del corpo del Signore, diversamente lo considera la [liturgia] Romana, diversamente la Gallicana, e in modo diversissimo la nostra Germania». Anselmo difende la diversità nell’amministrare i sacramenti, anteponendo all’uniformità l’unità: «vi lamentate dei sacramenti della chiesa, dal momento che non vengono celebrati dovunque in un unico modo, ma sono amministrati in diversi modi in luoghi diversi. Certamente se in tutta la Chiesa si celebrassero in un unico modo e concordemente, sarebbe cosa buona e lodevole. Ma dal momento che sono molte le diversità, le quali non differiscono per sostanza del sacramento, né per la sua potenza, o per la fede; e né si possono raccogliere tutte in un’unica consuetudine: ritengo piuttosto che esse sono da tollerare concordemente nella pace, che da condannare in disaccordo con scandalo. Infatti dai santi Padri abbiamo che, se si conserva l’unità della carità nella fede cattolica, una diversa consuetudine a nulla si oppone. Se poi si chiede dove siano nate questa varietà di consuetudini: non intendo altro che le differenze delle sensibilità umane. Le quali, benché non dissentano per realtà e potenza della cosa, tuttavia non concordano per attitudine e decoro nell’amministrarli. In realtà ciò che uno giudica essere più adatto, un altro lo ritiene spesso meno adatto, né ritengo che devii dalla verità della stessa realtà il non concordare in tali diversità».

Se per sensibilità umane intendiamo le culture che l’annuncio del Vangelo incontra e le modalità in cui il rito restituisce e organizza la fede dei credenti “per ritus et preces”, allora questo processo non potrà mai dirsi concluso, mutando le società e riorganizzandosi attorno a linguaggi nuovi e spesso capaci di sorprendere. Risultano magistrali le ultime battute di Anselmo e richiamano la chiesa ad un principio di unità che supera il piano dell’idea: si può anche non concordare con una certa consuetudine perché distante dalla sensibilità di una certa cultura, ma non per questo una chiesa deve sentirsi divisa da un’altra esperienza ecclesiale, quando “per ritus et preces”, anche se in modo diverso, si fa esperienza della stessa fede. Per Anselmo come per buona parte dei teologi medievali, dialettici e non, i sacramenti sono uno strumento perché la chiesa possa condurre i suoi fedeli al “sabato eterno”, e per questo devono comunicare, in ogni senso e con ogni senso, l’essere nuova creatura. Tutto ciò solo nel secolo XI.

Mi chiedo allora come vivere la Tradizione segno di unità, più che pensarla e imporla a garanzia di uniformità?

Mi è parso utile ricorre ad uno strano tempo verbale, un “tempo non-definito”, capace di rendere la chiesa e la tradizione plastiche, non per prendere forme sempre nuove, quanto per aderire al tempo in cui vive, per conferirle una certa contemporaneità, ed essere così interpretabile e traducibile; ho pensato ad un tempo della narrazione: l’aoristo.

Per chi non fosse pratico di lingua greca, il che non costituisce materia di peccato, l’aoristo è un tempo verbale che ha la strana caratteristica di dirsi un “tempo non-definito”, ma non esclusivo della nobile tradizione ellenica, perché come ogni realtà che ha una vita non può neppure dirsi proprietà esclusiva di una sola cultura.

L’aoristo è quel frattempo che permette il dispiegarsi di una narrazione: apre il passato al presente consegnando un’azione al suo senso futuro. Ma la sua caratteristica principale è quella di porsi al di fuori della tradizionale contrapposizione tra un aspetto imperfettivo del verbo, che rende un testimone più un cronista dell’azione che si svolge sotto i suoi occhi, e quello perfettivo, che insiste sul fatto che l’azione sia vista come già compiuta, e cioè il testimone ad un processo, per il quale il fatto è custodito in un tempo e uno spazio lontani dalla vita.

La chiesa al contrario non può identificarsi in un cronista, fuori dall’azione, distante dal campo da gioco, e non può neppure porsi coll’atteggiamento del testimone capace solo di ricordi, bensì si pone come narratrice: non è il racconto che narra e neppure l’autore di questo racconto, è la voce che traduce in vita l’opera che l’autore consegna per un suo pubblico. Questo può accadere quando un Papa canonizza un linguista.

1 J. Moltmann, Esperienze di pensiero teologico. Vie e forme della teologia cristiana, (BTC 115), Brescia 2001, 63.

2 A. Agnolin, «Grammatica dell’evangelizzazione e catechesi della lingua indigena. Mesoamerica e Brasile: XVI-XVII secolo. Traduzione come conversione. Le lingue generali, il “Greco della Terra” e l’invenzione del Tupì», in Pratiche sacramentali tra vecchio e Nuovi Mondi, M. T. Fattori (a cura di), Cristianesimo nella Storia, 31 (2010) 2, 681-742.

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