Piccolo mondo globale


Il 17 febbraio l’Associazione Difendiamo il Futuro ha organizzato a Torino un seminario su Futuro del lavoro e Intelligenza Artificiale, con la lezione magistrale di Pietro Terna, docente di Econofisica all’Università di Torino. Ne ho tratto la convinzione che l’IA è la leva che, a servizio di una specifica politica dell’Unione Europea, ci riporterà sul sentiero della piena occupazione, anche con lo sviluppo dei servizi alla persona, nella vera rivoluzione digitale in cui impareremo a imparare con «l’intelligenza della messa in rete delle macchine tra di loro, delle macchine e degli uomini, e degli uomini tra loro» [Pierre Veltz, La société hyper-industrielle. Le nouveau capitalisme productif, Seuil 2017, p. 42]. Inoltre, nel cortometraggio P.I.U.M.A., Pietro Pingitore, in otto minuti, ha illustrato la stessa prospettiva mostrandoci una bimbetta che con la sua umanità anima la sua tata-robot, poi con lei ai giardini ri-anima un giovane dal coma del cellulare e a sera libera il papà dall’ossessione di tablet e cellulare. Miracolo umano nei tempi della versione tecnologicamente avanzata di Alice nel paese delle meraviglie, dell’isola del tesoro e del pifferaio di Hamelin.
Allargata a est, l’UE ha una specifica ragione e storica opportunità per investire nella rivoluzione digitale dell’IA, perché «un sondaggio del gennaio 2015 ha rilevato che l’82% dei rispondenti della ex Germania Orientale considerava migliore la vita precedente». «In tutte le nazioni del Blocco Sovietico la gente scoprì che per lo più quanto il governo aveva detto loro sulla “realtà del socialismo” era un pacco di bugie. Ma che era vero quel che aveva loro detto sul capitalismo» [William A. Pelz, A PEOPLE’S HISTORY OF MODERN EUROPE, Pluto Press 2016, p. 210 e 211].
Come già la macchina a vapore, la chimica industriale e l’elettricità, l’IA può essere la leva tecnologica di un mondo nuovo capace di superare il vecchio anche in umanità, traghettandoci tra i pericoli oggi ben concreti e visibili in un mondo abbandonato a se stesso da potenti che non lo sono più (stati nazionali) o sono solo simulacri (imprese globali, di ogni taglia). John K. Galbraith lo conosce bene. «Ne ho tratto il convincimento che in nessun campo, più che in economia e politica, la realtà è deformata dalle preferenze e inclinazioni sociali, nonché dal tornaconto personale e di gruppo» [L’economia della truffa, tr.it. Rizzoli 2004, p. 10]. «L’errore riconducibile alla vox populi è sempre in agguato. Nella vita reale a comandare non è la realtà; sono la moda del momento e l’interesse pecuniario» [p. 16]. «Come le elezioni sanciscono il potere dell’elettore, così nella vita economica la curva della domanda sancisce il potere del consumatore. Purtroppo, entrambi i termini celano un non trascurabile risvolto truffaldino. Nel caso del voto come in quello dell’acquisto di beni e servizi, esso sta nel sorvolare sulla straordinariamente efficiente e generosamente sovvenzionata capacità d’influenzare le facoltà di scelta dei cittadini» [p. 32-3]. «Anche oggi si coltivano e rispettano le arti, le scienze e il loro contributo alla società e a quello che davvero arricchisce e abbellisce la vita. La frode, più che trascurabile, sta nel misurare il progresso sociale solo in base alla produzione decisa in gran parte dai produttori, cioè dall’incremento del Pil» [p. 38].
«Il capitalismo avendo lasciato il posto al management cum burocrazia, si attribuisce alla proprietà una rilevanza fittizia. Ecco l’imbroglio. In questo caso l’inganno ha aspetti rituali: uno è il consiglio di amministrazione; selezionato dal management, pienamente subordinato al management, ma ascoltato in quanto voce degli investitori». «L’approvazione è data per scontata, compresi gli emolumenti dei dirigenti, decisi dai dirigenti stessi. Come stupirsi se questi tendono a essere astronomici?» [pp. 54-5]. «È questo, lo ripeto, il principale evento economico di questo inizio di Ventunesimo secolo: un sistema della grande impresa basata sulla illimitata facoltà di auto-arricchimento». «È questo il più drammatico, e uno dei meno innocenti, tra gli aspetti del management della grande impresa. Ed è anche ben poco sorprendente, in un sistema in cui i privilegiati hanno l’ultima parola sui loro privilegi; un’altra truffa non del tutto innocente» [pp. 60-1].
In una nota pubblicata il 2 febbraio da Natixis, «Patrick Artus, responsabile degli studi economici della banca e nel consiglio di amministrazione di Total, osserva da dentro la dinamica del capitalismo. E vi vede una “logica implacabile”. In tre tempi. Uno, constata una “riduzione della efficienza delle imprese nei paesi OCSE”, che può ridurre i profitti. Due, per evitarlo, le società interessate fanno in modo di captare una parte maggiore del valore aggiunto, a spese dei salariati, pagati meno. Ma c’è un limite: “l’impossibilità di ridurre i salari sotto un certo livello”, “il salario di sussistenza”. È il terzo tempo: per sostenere comunque il rendimento del capitale, i capitalisti speculano, scommettono su bitcoin o immobiliare, le imprese acquistano le proprie azioni, ecc. “Questa dinamica sfocia di necessità da un lato nell’aumento delle ineguaglianze di reddito, dall’altro in crisi finanziarie”» [Denis Cosnard, «Et si Karl Marx avait tout prévu?», Le Monde Éco&Entreprise, 06/02/2018, p. 1].
Crisi che la Federal Reserve USA, in «un’elegante fuga dalla realtà», cerca di arginare manovrando il costo del denaro. «Il problema è che questi meccanismi, per quanto verosimili e creduti veri, esistono solo nella ferma convinzione degli economisti. Nella realtà non ce n’è traccia. La convinzione di cui si è detto poggia tutta sulla apparente linearità del ragionamento; i fatti non l’hanno suggerita né suffragata. Le imprese non prendono denaro in prestito perché costa poco, ma perché ritengono che darà profitti» [Galbraith, cit., pp. 80-1]. Tra il 2 e l’8 febbraio, tra crolli e volatilità, le borse mondiali hanno temuto il possibile rialzo dei tassi di interesse da inflazione per un modesto aumento semestrale dei salari USA in un contesto di piena occupazione [Isabelle Chaperon et Arnaud Leparmentier, «Les marchés entrent dans une nouvelle ère», Le Monde Éco&Entreprise, 10/02/2018, p. 5]. I soldi facili vanno in borsa, non in investimenti produttivi, hanno ragione Galbraith e Cosnard, cui The Economist fa eco raccomandando di non aumentare i tassi, anche se lo stimolo fiscale avviato in America «è mal concepito e temerariamente ampio. Aumenterà la volatilità del mercato finanziario. Ma dato che c’è, è tanto più importante che la Fed non perda la testa» [«Running hot», February 10th 2018, p. 9].
Ma c’è di più. «Negli Stati Uniti, il fenomeno dell’ingresso dell’impresa nominalmente privata nel settore pubblico è più massiccio e evidente nell’ambito della Difesa, o, come si dice, al Pentagono. Da qui il settore privato esercita un’influenza determinante sul bilancio delle Forze Armate. E anche, in misura tutt’altro che marginale, sulla politica estera, quella degli armamenti e, in ultima analisi, sugli interventi armati. Cioè la guerra» [Galbraith, cit., p. 95]. Lo testimonia un «soldato di ventura, profittatore di guerra, magnate-ombra: non mancano soprannomi per il fondatore della società privata di sicurezza Blackwater, responsabile di crimini in Iraq. Ma Erik Prince non è più un paria. Vicino a cristiani fondamentalisti e ultraconservatori, ha libero accesso alla Casa Bianca e conta di entrare in politica» [Nicolas Bourcier, «Erik Prince. Itinéraire d’un chien de guerre», Le Monde, 11-12/02/2018, p. 12]. Mercato in forte espansione, «per l’umanità, la guerra segna la più grave delle sconfitte» mentre «i problemi economici e sociali qui descritti, e anche la miseria e la fame, si possono affrontare col pensiero e l’azione, come si è già fatto» [Galbraith, cit., p. 109].
E in pace «non ha fondamento l’idea, recentemente sostenuta e applicata, che le riduzioni fiscali contrastino la recessione». «Il solo rimedio davvero sicuro alla recessione è una domanda robusta da parte del consumatore, così come la debolezza della domanda è la recessione. Negli Stati Uniti, specialmente in periodi di stagnazione e recessione, i cittadini a basso reddito necessitano sia di istruzione e cure mediche, sia di maggiori consumi familiari. Tuttavia, di fronte all’aumento delle richieste di aiuto, i governi, a livello federale e locale, tendono a diminuire l’intervento sociale pro capite. Ciò è particolarmente evidente mentre sto scrivendo. È una reazione che riduce ulteriormente il reddito personale e familiare, aggravando la recessione senza nessuna contropartita. Ma questo è il livello dell’attuale intelligenza economica» [ivi, pp. 104-6]. Intelligenza di chi?
«Ai vertici delle 50 società globali, tra presidenti e amministratori delegati» Giorgio Galli e Mario Caligiuri hanno «individuato un ristretto gruppo di 65 persone che fanno parte di svariati consigli di amministrazione di altre multinazionali, università, fondazioni o istituzioni private» [Come si comanda il mondo, Rubbettino 2017, p. 91]. «I leader mondiali della classe dirigente finanziaria e politica quasi sempre provengono dai circuiti delle banche d’affari e di investimento come Goldman Sachs, JP Morgan Chase, Barclays Bank PLC, UBS, Credit Suisse, Citigroup, Morgan Stanley, Bank of America, Merryll Lynch. Queste ultime, peraltro, sono anche le principali istituzioni che finanziano i due maggiori partiti americani e le campagne elettorali dei candidati alla presidenza». «Queste multinazionali, come abbiamo dimostrato, sono dirette da una ristretta élite, che, pur essendo a volte coinvolta in episodi di evasione fiscale, di collusione con la criminalità e in traffici illeciti, riesce a controllare le nomine dei principali componenti dei consigli di amministrazione di banche, università, gruppi mediatici e finanziari. Questa élite incide sulle decisioni politiche dei governi, indirizzando l’andamento economico, politico e sociale a livello internazionale» [p. 146]. «Pur non esistendo una ‘cupola globale’ che condiziona i destini del mondo, anche perché le multinazionali sono in sfrenata competizione tra loro, dobbiamo riconoscere che esse esprimono un forte potere di indirizzo sui destini del pianeta. Si tratta di persone che condividono gli stessi orizzonti culturali, i medesimi percorsi formativi, una comune visione del mondo. Persone che tendono all’arricchimento individuale, prescindendo non solo da qualunque interesse nazionale ma, a volte, anche societario» [pp. 147-8]. Le imprese che eludono il fisco hanno per lo più «sottoscritto il Patto mondiale (Global Compact), adottato nel 2000 su iniziativa ONU con l’impegno di rispettare diritti dell’uomo, diritto del lavoro, ambiente e combattere la corruzione». «Da decenni la governance internazionale cresce sull’ipotesi che, nelle parole stesse del Patto, le imprese sono “il motore essenziale nel quadro della mondializzazione”. Impegni civili e pratiche fiscali contraddittorie rivelano, più che doppiezza, un preciso rapporto di forza: imprese, finanzieri e ricchi filantropi si considerano i più legittimati e efficaci per dirigere gli affari mondiali, inclusa la salvezza del pianeta» [Pierre-Yves Gomez, «Quand les riches sauvent la planète», Le Monde Éco&Entreprise, 13/01/2018, p. 7].
«Non a caso, Karl Popper ammoniva che tema centrale della convivenza umana è “come controllare chi comanda”. Sarà questo, probabilmente, il tema centrale del nostro tempo» [Galli e Caligiuri, cit., p. 150]. «Alla radice del problema non c’è il disprezzo della legge, ma la forza delle credenze personali e sociali. E infatti non c’è traccia di senso di colpa: semmai, c’è autocompiacimento» [Galbraith, cit., p. 12]. L’autocompiacimento del ciascun per sé, l’odio per la democrazia.

Perché. «Le élite economiche sono avvantaggiate poiché operano a livello globale mentre la politica si muove su basi ancora prevalentemente nazionali. In quest’asimmetria sempre più profonda, a causa soprattutto della diversa modalità di selezione delle élite, le democrazie rischiano di risultare inefficienti e inadeguate, lasciando esplodere una crisi sociale senza precedenti» [Galli e Caligiuri, cit., p. 148]. «Ad esempio i due economisti americani Hunt Allcott (università di New York) e Matthew Gentzkow (Stanford) hanno formato una base delle principali ‘fake news’ delle elezioni americane e mostrato che non hanno potuto far eleggere Trump (“Social Media and Fake News in the 2016 Elections”, Journal of Economic Perspectives n° 31/2, 2017). Le scienze comportamentali ci aiutano a spiegarne il debole impatto. Nelle ‘fake news’ il lettore cerca anzitutto conferma o amplificazione delle sue credenze, senza modificarle: “Detesto Hillary Clinton e mi piacciono tutte le fake news su di lei, anche le più aberranti”. Questo comportamento ha un impatto fondamentale sul mercato delle ‘fake news’. Poiché di un mercato si tratta. L’apporto delle reti sociali, di Internet in genere, al tema classico della disinformazione è che inventare e far circolare ‘fake news’ genera traffico e, dunque, un guadagno per ogni clic. Al di là di ogni ideologia, fanno guadagnare tanto più quanto più vasto è il mercato. L’elettorato populista è attratto proprio da informazioni alternative a quelle dei media affermati. Perciò è molto più redditizio inventare e diffondere ‘fake news’ su Hillary Clinton, Europa, rifugiati» [Philippe Askenazy, «Le ‘fake news’ sont d’abord un marché», Le Monde Èco&Entreprise, 31/01/2018, p. 7]. In USA ha vinto il mercato sulla democrazia, non un partito. Come scrive Galbraith, «l’errore riconducibile alla vox populi è sempre in agguato». Nuova è la tecnologia, non la storia né l’attualità, anche modesta: «un intellettuale della Lega, il professor Gianfranco Miglio, un accademico milanese che aveva contribuito a far conoscere in Italia il pensiero di Carl Schmitt, si dichiarava apertamente favorevole al “mantenimento della mafia e della ‘ndrangheta’ al Sud”, precisando sibillinamente: “Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. Esiste anche un clientelismo buono, che può determinare la crescita economica”» [Jacques de Saint Victor, Patti scellerati. Una storia politica delle mafie in Europa, tr.it. UTET 2013, p. 336; l’articolo di Miglio è del 20 marzo 1999 su Il Giornale, col titolo «Non mi fecero ministro perché avrei distrutto la repubblica»]. A ognuno il suo mercato libero, anzi liberato dalla democrazia. C’è di meglio.

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