Globalizzazione pandemica


Nel luglio 2016 della Brexit, in coda in una posta londinese, un signore mi indica Putin e Trump su una rivista: “Trump lo mette sotto”. A dicembre 2017, un vispo ragazzetto parigino mi apostrofa per strada: “Signore, il denaro è la cosa più importante!”. In mezzo, colta al volo a Milano, una coppia anziana: “Ci lascino in pace nei nostri ultimi vent’anni!”. Ciascun per sé nella globalizzazione, che va da sé perché «la mondializzazione è anche biologica». Nell’epidemia influenzale 2017-18 «vettore principale è il virus A(H1N1) responsabile della pandemia del 2009». Battezzata ‘influenza suina’, «per calmare gli allevatori l’OMS la ribattezzò A(H1N1). Ma la corretta denominazione scientifica non serve a nascondere le molte malattie, trasmesse da umani (HIV, SARS, epatite, vaiolo…) o zanzare (febbre tropicale, CHIKV, malaria…) di rapida diffusione spesso mondiale. Gli agenti infettivi seguono l’uomo negli spostamenti, si insediano in bagagli e spedizioni, contaminano tutto» [Frédéric Joignot, «La mondialisation est aussi biologique», Le Monde des Idées, 24/02/2018, p. 5].
Esperto internazionale sulla resistenza batterica agli antibiotici, Antoine Andremont ha scritto, con Stephan Muller, Antibiotiques. Le naufrage. Notre santé en danger [bayard 2014]. «Lottare contro la resistenza dei batteri agli antibiotici non è lottare contro un nemico esterno contro cui ‘basterebbe’ inventare nuove armi, è lottare contro noi stessi, contro le incredibili negligenze dimostrate nella gestione di un bene tanto prezioso. È ben più difficile! Siamo a un punto di rottura, in questo preciso momento gli ultimi baluardi stanno per cedere. Senza una scappatoia conosciuta». «La cifra ‘ufficiale’ di 25.000 morti l’anno dovuti alla resistenza batterica in Europa ci sorprende perché la maggior parte di noi non ne ha avuti nel proprio ambiente, a differenza del cancro e degli incidenti automobilistici. Ma il rischio è che non duri a lungo». «In realtà, solo i cittadini renderanno possibile il cambiamento obbligando i loro responsabili politici a reagire per ridurre l’uso inappropriato degli antibiotici e incoraggiare lo sviluppo di soluzioni innovative» [pp. 194-5]. «Il declino degli antibiotici è dovuto agli stessi errori che abbiamo fatto sfruttando le altre risorse limitate del pianeta. Bisogna tornare alla ragione fondamentale che ha portato alla scoperta degli antibiotici nel 1928 da parte di Alexander Fleming. I pazienti ne hanno bisogno. Ne dipende la nostra salute collettiva» [pp. 197-8].
«I batteri lottano per la loro sopravvivenza. Da che mondo è mondo, sono sempre riusciti a adattarsi quando l’ambiente diveniva ostile. È automatico. Darwiniano insomma» [p. 16].
Così è anche per noi involontari cittadini del mondo. «Quando nel 2014 il Pew Research Center’s Global Attitudes Project chiese quale fosse il “peggiore pericolo al mondo”, scoprì che negli Stati Uniti e in Europa “le preoccupazioni per l’ineguaglianza sovrastavano ogni altro pericolo”» [Anthony B. Atkinson, Inequality. What can be done?, Harvard University Press, 2015, p. 1]. Steve Bannon ha invece iniettato la paura nella campagna elettorale di Trump e il 10 marzo a Lilla la ripropone dalla tribuna di rifondazione dell’ex Front National: «Marine Le Pen l’ha spiegato, non c’è più destra e sinistra, un’invenzione dell’establishment e dei media per impedirci di arrivare al potere. L’ha detto perfettamente: per voi lo Stato-nazione è un ostacolo da superare o un gioiello da lucidare, prediligere, custodire? Fate parte d’un movimento mondiale più grande della Francia, dell’Italia, dell’Ungheria, della Polonia, più grande di tutto. La storia è con noi e ci porterà di vittoria in vittoria. […] Per questo hanno tanta paura di voi» [Lucie Sollier, «Au FN, un nouveau nom pour une ligne dure», Le Monde, 13/03/2018, p. 8]. La paura è la chiave di ogni terrorismo: «nelle parole di Anwar Aziz, uno dei primi suicidi-bomba a Gaza nel 1993, “le battaglie per l’Islam non si vincono col fucile, ma accendendo la paura nel cuore del nemico”» [Benjamin R. Barber, Fear’s Empire. War, Terrorism, and Democracy, W.W. Norton & Company 2003, p. 22].
Con la paura si moltiplica l’ineguaglianza – come in Europa dopo la prima guerra mondiale – sin che non ci riconosciamo eguali nel rispetto dei reciproci obblighi imposti dalla vita stessa – come nel mondo occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Ma «persino in Europa occidentale e Nord America, le lezioni apprese dopo il 1945 sul mondo che generò l’Olocausto e le contromisure allora adottate, sono ora sotto attacco». «Una certa visione capitalista del libero mercato ha via via perso di vista il contratto implicito che per lo più le nazioni occidentali fecero coi loro popoli dopo la seconda guerra mondiale. Quel contratto offriva la promessa che il governo avrebbe provveduto ai servizi fondamentali e alla sicurezza in cambio della rinuncia dei cittadini all’estremismo politico» [Peter Hayes, Why? Explaining the Olocaust, W.W. Norton & Co 2017, p. 334]. Tuttavia, «la realizzazione di una società meno ineguale nel periodo della seconda guerra mondiale e nei decenni successivi non è stata rovesciata del tutto. A livello globale, si sta saldando la grande divergenza coi paesi eredi della rivoluzione industriale. È vero che dal 1980 si è vista una ‘svolta dell’ineguaglianza’ e il ventunesimo secolo porta le sfide di invecchiamento, cambiamento climatico, squilibri globali. Ma le soluzioni di questi problemi sono nelle nostre mani. Se abbiamo la volontà di usare la maggiore ricchezza attuale per affrontare queste sfide e accettiamo che le risorse dovrebbero essere divise meno inegualmente, in realtà c’è motivo di ottimismo» [Atkinson, cit., p. 308].
Ottimismo che non c’è nel neoliberismo del ciascun per sé, esemplare nelle parole del presidente di Dow Chemical, Carl A. Gerstacher (1974): «Ho sognato a lungo di acquistare un’isola che non fosse di proprietà di alcuna nazione […] e stabilire, sul suolo davvero neutrale di questa isola, la sede centrale mondiale della Dow, esente da obblighi nei confronti di qualunque nazione e società». «Saremmo persino in grado di ricompensare generosamente gli abitanti del luogo perché si trasferiscano altrove» [Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, 20142, p. 92]. Ma non c’è ‘altrove’ nella globalizzazione «esente da obblighi nei confronti di qualunque nazione e società». Investendo e disinvestendo, o annunciandolo, ricatta stati nazionali ormai obsoleti (per popolazione, territorio, finanza, potere legale) e disponibili a prezzi di saldo, corruzione inclusa. Come per l’uso inappropriato di antibiotici e risorse naturali, «non è lottare contro un nemico esterno contro cui ‘basterebbe’ inventare nuove armi, è lottare contro noi stessi» per procedere sulla via di governi e accordi sovranazionali, ma la politica della paura e la globalizzazione esente da obblighi «sono entrambe fondate su un’anarchia globale che entrambe promuovono» [Barber, cit., p. 23]. Lo storico tedesco Ludwig Dehio lo scrisse già nel 1948. «Sarebbe, infatti, temerario il predire per quali vie dirette e indirette la tendenza all’unificazione del globo, che ogni giorno si fa più piccolo, potrebbe raggiungere la sua meta: soltanto è certo che non vi rinuncerà, dovesse pure avvenire questa cosa miracolosa: che l’umanità dappertutto nello stesso tempo sperimentasse un cambiamento del modo di pensare e abbandonasse il cammino della civilizzazione e della lotta per il potere, sul quale essa, sferzata dallo scatenato demone della volontà di vivere, avanza furiosamente nonostante l’orrore da cui nel fare ciò viene agitata» [Equilibrio o egemonia, trad.it. Il Mulino 1988, p. 242].
Nel mondo sempre più piccolo e unito, sta a noi, involontari suoi cittadini, rendere umana la nostra volontà di vivere contro il ‘divide et impera’ della paura e del nazionalismo. Politicamente inesistente, la globalizzazione neoliberale cede il passo a imperi criminali, politici, digitali, militari, economici, finanziari, ideologici. Simon Johnson, del Massachusetts Institute of Technology, ci mette in guardia: «Come nel 2008, rischiamo di constatare a nostre spese il ruolo cruciale di una adeguata regolamentazione delle istituzioni finanziarie di importanza sistemica» [«L’administration Trump prépare Lehman Brothers, épisode 2», Le monde Éco&Entreprise, 08/03/2018, p. 7].
Paradossalmente spingerà l’UE all’unione politica. Pierre-Cyrille Hautcœur, direttore di ricerca allo EHESS, ricorda che in Europa «le cinque banche maggiori rappresentano il 45% del bilancio totale del settore, contro il 30% nel 2008, senza contare le filiali». «Troppo grandi per fallire, nella prossima crisi gli stati nazionali non potranno più assicurare il salvataggio di questi gruppi bancari europei transfrontalieri. Dovrà farlo per forza l’UE, che dovrà assumere i relativi poteri politico e finanziario. Governi nazionali e UE devono prepararsi» [«Etats et banques centrales face au risque systémique», Le Monde Éco&Entreprise, 16/03/2018, p. 7]. L’economista Christian Saint-Etienne fa l’ipotesi di «un nocciolo duro intergovernativo capace di condurre a proprie spese una politica di potenza». «Con criteri predefiniti, strettamente attuati: essere nell’area euro, e accettare regole budgetarie rigorose e le tre condizioni di successo dell’euro (mini-bilancio della zona, governo economico e attuazione di regole minime fiscali e sociali – ad esempio un’imposta sulle società di almeno il 20%). Nessun paese è escluso a priori», ma «escludendo ogni presa in carico dei debiti del Sud da parte del Nord» [«Une institution intergouvernementale peut faire de l’Europe une puissance», Le Monde Éco&Entreprise, 17/03/2018, p. 7].
È necessario ripeterlo. «Se abbiamo la volontà di usare la maggiore ricchezza attuale per affrontare queste sfide e accettiamo che le risorse dovrebbero essere divise meno inegualmente, in realtà c’è motivo di ottimismo». ‘Se’, dipende da noi involontari cittadini del mondo sempre più piccolo e unito.

Brexitino. In Italia abbiamo votato mentre un presidente USA lavora solo alla rielezione, isolando internazionalmente il paese; un leader cinese plebiscitato a vita proietta sul mondo un paese sempre più ostile ai valori universali di libertà, uguaglianza, democrazia; e un presidente russo è all’ennesimo rinnovo con la forza della forza, letteralmente eliminando gli antagonisti. In mezzo, l’Europa deve darsi un governo federale sovranazionale per riattivare il contratto di solidarietà che, con la pace, è la vera eredità di due guerre mondiali. Molti elettori scelgono però la scorciatoia degli usurati egoismi nazionali, o ‘nuovi’ regionali, come due ministri del nuovo governo Merkel che, in vista delle elezioni bavaresi, lo contestano da destra [Thomas Wieder, «A Berlin, la droite conservatrice en croisade», Le Monde, 20/03/2018, p. 5]. Nella crisi dell’ordine neoliberale è indispensabile un pensiero adeguato, in Europa con la scelta storica se federarsi o tornare ciascuno a casa propria, senza sapere quale, nella globalizzazione del ciascun per sé. A modo nostro, abbiamo replicato Brexit: un leader che promuove l’UE criticandola e opposizioni, nate apparentemente dal nulla o dal mito, che volgono contro l’UE la reazione sociale alla globalizzazione neoliberale, pure meno violenta in Europa che nel mondo. Come in Brexit, se il voto è cosa seria, la responsabilità sostanziale è di elettori confusi che scelgono movimenti nazionalisti, magari sociali, pur dichiarando in tutti i partiti di confidare più nella UE che nello Stato italiano per risolvere i problemi: rispettivamente, il 38 e 19% degli elettori totali, il 22 e 7% della Lega, il 28 e 12% del M5s [«La fiducia nello Stato e nell’Unione Europea», la Repubblica, 12/03/2018, p. 10]. Inoltre, «i reati calano. La paura cresce» [Domenico Affinito e Milena Gabanelli, Corriere della Sera, 12/03/2018, p. 21]. Il partito di Salvini sale da 153 a 4.808 voti a Macerata dopo che un attivista ha ucciso tre innocenti in nome della sicurezza [Luciano Fontana, «Le responsabilità di chi ha vinto», Corriere della Sera, 06/03/2018, p. 1]. «Se ammettiamo che ciò dipenda in parte anche dall’accidia, dall’inerzia, dall’indifferenza della gran parte di noi cittadini comuni», come mi scrive un amico, nel mondo globale dell’ineguaglianza noi italiani non siamo un rebus, siamo una preda, nell’irreale presunzione di sovranità di un bilancio e una moneta dipendenti in tutto e per tutto dalla tutela, ora al tramonto, della Banca Centrale Europea contro agenzie di rating, imperi globali e già oggi la stessa UE in crisi darwiniana. Col Regno Unito, già fummo cacciati dal sistema monetario europeo da uno speculatore privato. È vitale fare una seria riflessione e dare affidabili chiarimenti sulle nostre aspettative, a partire dal basso di noi, involontari cittadini del mondo residenti in Italia, perché, se non possiamo permetterci i lussi del Regno Unito, nell’euro possiamo però risparmiarci le sofferenze greche e, non facendoci cacciare, i ben più gravi malanni argentini dopo il divorzio dal dollaro. Soprattutto, possiamo dire la nostra nell’UE (nata da due guerre mondiali e una fredda) spinta a divenire politica dalla prossima crisi finanziaria globale, per molti incerta non ‘se’ ma ‘quando’, nella globalizzazione pandemica «esente da obblighi nei confronti di qualunque nazione e società». Meglio considerarli non gufi (che vedono nel buio), ma medici che valutano la familiarità dei nostri malanni. Comunque il male minore, perché «senza l’impegno degli USA per l’ordine internazionale e il potere necessario a difenderlo contro sfidanti determinati e abili, i pericoli saranno più gravi. Se così sarà, un futuro di guerra potrebbe essere più vicino di quel che pensi» [«The next war», The Economist, January 27th 2018, p. 9]. Specie dopo il 22 marzo, quando Trump, con la guerra dei dazi dichiarata alla Cina e minacciata per ricatto all’UE, ha nominato consigliere per la sicurezza nazionale il «radicale e dottrinario» John Bolton, «favorevole agli attacchi preventivi contro la Corea del Nord. Il brutto vento che soffia da Washington è lontano dal calmarsi» [«Un vent mauvais venu de Washington», Le Monde, 24/03/2018, p. 21].

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