Nuova teologia eucaristica (/19): Hoc facite: Sintesi dell’Autore (di Zeno Carra /2)


Hocfacite

Hoc facite. Studio teologico-fondamentale sulla presenza eucaristica di Cristo

Sintesi dell’ Autore (/2)

di Zeno Carra

 Sul finire della prima parte di questo saggio si è rilevata una parzialità interna al sistema tomista sull’eucaristia quanto alla sua collocazione nell’ambito del reale. Di seguito si procede al mostrare il secondo livello della sua inadeguatezza, per la sua ricezione nel mutato orizzonte culturale del secolo XX.

 2. È proprio su questo punto che si articola il secondo livello di risposta alla nostra domanda: perché il sistema tomista non reggerebbe più l’istanza centrale di “realtà” del fatto eucaristico?

Già al primo livello (vedasi sopra) la soluzione dell’Aquinate, pur permettendo di uscire da un vicolo cieco, opera alcune notevoli riduzioni sull’evento eucaristia nella sua complessità1: essa resta tuttavia collocata in un sistema culturale nel quale la sua costruzione filosofica regge. Mi spiego: per un uomo medievale il livello di “sostanza” di una cosa è il fondamento effettivo e reale di essa. La sostanza dell’ente, per quanto divaricata al massimo dalle sue determinazioni contingenti, storiche, resta inclusa in quell’alveo delle cose che definiamo “realtà”. Collocare la presenza di Cristo a livello della sostanza metafisica degli enti assicura che tale presenza sia “reale” in quanto la sostanza è dato di realtà, è il livello fondante della realtà di un ente. La metafisica aristotelica vuole descrivere non ciò che sta altrove rispetto al “fisico” ma il livello più vero, più stabile di questo mondo esperibile.

Questa visione delle cose, che funziona nel XIII secolo, viene progressivamente mutata e non è più tale dopo la svolta epistemologica che, con approssimazione di volgata, indichiamo in Cartesio.

L’uomo dell’epoca moderna divide l’essere in “res extensa” e “res cogitans”, raccogliendo sotto la prima definizione il mondo fisico, esperibile, sensibile …, e, sotto la seconda, l’ambito dei concetti metafisici. La “sostanza” passa dall’essere il fondamento del reale ad essere un puro concetto di ragione, in quanto gli enti metafisici diventano enti di ragione. Il senso comune di un uomo contemporaneo acuisce questa divisione dicendo “concreto” / “astratto”. Le determinazioni della metafisica passano negli enti astratti di cui ci serviamo per interpretare il reale, ma che sono collocati nel nostro mondo mentale, ideale.

Che esito ha questo per una dottrina eucaristica costruita sulla metafisica aristotelica dell’ente? È facilmente intuibile: il livello prima centrale (la sostanza) viene percepito come realtà astratta; il livello prima secondario (gli accidenti nella loro datità percepibile) emerge al centro dell’essere (la realtà come concretezza esperibile): le strutture culturali su cui si reggeva il tomista sono capovolte.

Un’interessantissimo momento sintomatico di questa recezione di Tommaso che vuole mantenere la sistematica tomista (in quanto autorevolmente sancita dal Concilio di Trento), ma che la stravolge senza accorgersene, è il dibattito che ebbe luogo tra Filippo Selvaggi e Carlo Colombo a proposito della collocazione epistemologica della presenza eucaristica (1949-1960). Entrambi assumono il dettato di Tommaso e lo collocano nel nuovo orizzonte del XX secolo. Il primo per assicurare la “realtà” al fatto eucaristico non esita a tradurre le categorie tomiste nel linguaggio della fisica atomica di quegli anni, adagiando la distinzione sostanza-accidenti sulla distinzione (nel modello atomico di Bohr) tra nucleo dell’atomo e sua corona di elettroni! Al di là del tentativo un poco grottesco, ciò che colpisce è l’istanza da salvaguardare: se per l’uomo moderno la realtà è il piano “fisico” delle cose, la presenza eucaristica non può collocarsi “altrove”. La posizione di Colombo avrà la meglio nella recezione teologica successiva: il sistema ontologico di Tommaso va recepito in senso squisitamente “metafisico”: un conto è il piano della realtà fisica, soggetta all’osservazione empirica, ed un conto è la presenza di Cristo: essa va intesa metafisicamente.

Questa seconda linea di recezione, che andrà per la maggiore, espone il dogma all’esito inevitabile già rilevato: se la presenza eucaristica di Cristo è un fatto metafisico, essa, in ultima analisi, diviene un dato astratto!

Che questa sia la pericolosissima strada che abbiamo imboccato lo mostrano molti sintomi della nostra prassi eucaristica:

  • la fatica di “spiegare” ai fanciulli (e non solo) il dogma della presenza reale, barcamenandosi tra complicate dissertazioni con cui rendere accessibile e non irrilevante la metafisica dell’ente, da un lato, e semplificazioni eccessive dall’altro (“tu vedi una cosa, ma in realtà è Gesù: devi crederci”) nelle quali chiediamo all’uomo del XXI secolo di abdicare alle proprie strutture gnoseologiche per vivere da credente!

  • L’insistenza sull’accesso mentale-intellettivo (talvolta con rivestimento emotivo) alla celebrazione eucaristica: ciò che conta dell’andare a messa alla domenica è “portarsi via un bel messaggio”. E l’abitudine ad una prassi celebrativa a ciò coerente: didascalizzazioni continue che interrompono il rito (l’importante è capirlo, non farlo!); predilezione per uno stile verboso da conferenza (le sezioni cantate sono solo di contorno, di abbellimento); conseguente disposizione dello spazio sacro: palco e platea. Per poi stupirci e dolerci se centinaia di fedeli che il “messaggio” ormai l’hanno “capito” non vengano più a messa, ma preferiscano coltivare questo “messaggio”, e le emozioni annesse, nel privato delle loro pratiche.

  • Sul versante opposto, lo svilupparsi di pratiche devote che, per salvaguardare l’istanza di realtà dell’eucaristia, ossia recuperarne l’incidenza “fisico-concreta” al di là del mero intellettualismo del “messaggio”, ripescano atteggiamenti del fisicismo altomedievale che identificano tout court l’ostia consacrata con “Gesù” (toccarla, baciarla, passarsela di mano in mano, etc.)

Tutto questo denuncia chiaramente che l’utilizzo nella contemporaneità del sistema tomista non custodisce più la ricchezza del fatto eucaristia nelle sue istanze, prima fra tutte l’istanza di realtà. L’uomo sta alla realtà delle cose in un certo modo: la teologia di Tommaso non offre più a quest’uomo un discorso teologico che connetta, nello snodo irrinunciabile che è l’eucaristia, la presenza di Cristo alla sua realtà, quale egli la accede. Questo ci pone di fronte un’alternativa: cambiare la testa dell’uomo contemporaneo o ripensare la teologia eucaristica su altre costruzioni filosofiche.

Sapendo di peccare di ingenerosità e di approssimazione, indicherei la prima opzione come propugnata da coloro che denunziano il mondo contemporaneo come strutturalmente errato. Il mondo, l’uomo, le cose, vanno riportate al giusto modo di intendersi.

Mi sembra più attuabile (e forse più conforme allo sguardo benedicente del cattolico sulla realtà?) la seconda via: chiedere alla teologia di ripensarsi per ritrovare istanze che sta rischiando di perdere.

Il secolo ventesimo si è caratterizzato in tal senso su vari fronti: diverse aree del pensiero credente hanno tentato, anche indipendentemente le une dalle altre, di ripensare l’impianto teologico classico2.

Sinteticamente queste aree teologiche e i loro apporti sono:

  • il Movimento Liturgico: esso ha riportato in primo piano il fatto della celebrazione, come struttura coerente e coesa di azioni che la chiesa pone in atto: non mera cerimonia che incornicia un nucleo essenziale di natura altra dal rito. Tra i meriti della riflessione in questo campo c’è l’aver rilevato che antropologicamente la pratica concreta, storica, del rito plasma la spiritualità interiore dell’uomo. Non è dunque valida solo la direzione dal pensiero (inferenza sull’essere) alla pratica, ma per la liturgia vale il contrario: ciò che l’uomo fa muta ciò che l’uomo pensa e sente. In questo modo si è rimessa in primo piano l’azione storica dell’uomo. Forse il limite degli apporti del movimento liturgico sta nel non aver incrociato significativamente la speculazione della teologia dogmatica di ambito sacramentario: liturgia e dogmatica sono rimaste due discipline contigue ma non del tutto comunicanti nelle loro strutture.

  • Il dialogo ecumenico: il confronto pacificato tra le diverse dogmatiche confessionali sul tema della presenza eucaristica ha portato a passi di reciproco riconoscimento: le chiese e confessioni cristiane hanno mutuato l’una dall’altra le istanze custodite dalle tradizioni diverse. Il recupero, per la teologia cattolica, dell’interesse protestante alla forma antropologica della cena in cui l’eucaristia è sorta, ha contribuito ad un risultato parallelo a quello del movimento liturgico: ciò che accade sul piano sacramentale è determinato essenzialmente dalle azioni del “contesto” di una cena in cui esso accade. Il rischio nell’assunzione di apporti dalla teologia riformata sta però nel mutuare, senza accorgersene, un’istanza protestante inaccettabile per la dogmatica cattolica: fare della cena di Gesù con i suoi la forma dell’eucaristia significa dare per presupposto che si riproponga quella dinamica dei fatti, per la quale il Signore è presente a noi, non per via sacramentale, prima e a prescindere dall’istituzione del sacramento. Tutti i tentativi teologici in tal senso sottolineano infatti la presenza del Signore alla sua chiesa come requisito necessario per comprendere l’eucaristia. Se ciò in parte è legittimo, in parte è anche rischioso: si richiede come presupposto quel fatto che il sacramento – secondo il dogma cattolico – pretende di produrre: la presenzializzazione del Signore. Si ha qui l’assunzione acritica di una struttura mentale protestante che non accetta che i sacramenti, azioni storiche dell’uomo (“opere”), siano effettivamente mediazioni di grazia. Essi possono esserne espressione, manifestazione, occasione, ma non mediazione. L’impianto tomista, pur nei limiti rilevati, custodiva invece l’istanza della mediazione: non è la presenza del Signore (già data a monte) a produrre la sua presenzializzazione sacramentale, ma la virtus che dal Signore è stata conferita una volta per sempre alle parole della consacrazione e che ha affidato all’azione di cui la chiesa è soggetto. Per Tommaso veramente un’azione storica, umana, è attuazione efficace di grazia: fare quel piccolo segmento di rito, unico rimasto rilevante nel suo sistema, è porre in atto la presenza sacramentale del Signore. È vera mediazione ecclesiale (S. Th. III, q. 78, a. 4).

  • Un ultimo ambito della riflessione teologica del ‘900 è la speculazione dogmatica proprio in materia di presenza eucaristica. Si tratta di quei tentativi che la volgata teologica ha trasmesso nelle sigle riduttive di transignificazione e transfinalizzazione: sigle che hanno rilevato solo le loro parzialità senza ricordarne gli apporti fecondi. Tra questi merita di essere rilevato il tentativo di rifondare la costruzione filosofica del sistema eucaristico: al posto della metafisica aristotelico-tomista (di cui abbiamo rilevato i limiti nella trasposizione all’epoca moderna) propongono un approccio fenomenologico. L’apporto interessantissimo, che converge nella medesima direzione dei due sottolineati prima, sta nell’indicare che l’essere di una cosa non è metafisicamente contenuto in essa (sistema sostanza-accidenti), ma che una cosa è se stessa per la rete di relazioni che dall’esterno di essa la costituiscono tale. La cosa è ciò che di essa si fa, è il come essa si riceve dalle azioni che sono agite su di lei e la fanno sorgere. L’applicazione al pane e vino consacrati è presto fatta: essi sono corpo e sangue di Cristo in virtù della rete relazionale complessa di azioni e intenzioni che su di essi è agita. Questa proposta non mira – come sostenevano i suoi detrattori – a privare di portata ontologica la presenza eucaristica di Cristo, apportando “solo” marginali considerazioni fenomenologiche: essa mira a raccogliere la nuova prospettiva ontologica con cui la cultura attuale coglie l’essere delle cose e ad iscrivere in essa il fatto dell’eucaristia. La fenomenologia non si pone accanto alla vecchia metafisica aristotelica dell’ente, ma pretende di sostituirla nella sua portata ontologica. Il rischio delle proposte teologiche di quest’ambito è stato quello di evidenziare unilateralmente una sola linea del fascio di relazioni esterne all’ente che lo costituisce come tale, quella conoscitiva uomo ente: “La tal cosa è tale per il fatto che io la conosco come tale”. Applicato all’eucaristia ciò rischiava di far scivolare la presenza di Cristo nella soggettività del mio rapporto inferenziale con pane e vino consacrati. L’insistenza unilaterale su questa dimensione ha portato ha privilegiare la categoria di “segno” (da cui la sigla “transignificazione”), impostando la questione in modo troppo parziale: “pane e vino sono corpo e sangue di Cristo in quanto ne sono segno per me/per noi”. Paolo VI intervenne contro questa riduzione nell’enciclica Mysterium Fidei. La denunciò come inadeguata. Ma non incoraggiò gli apporti più prettamente ontologici di queste proposte, contribuendo così a renderli irrilevanti nell’apporto del pensiero teologico.

 Se questi ultimi tentativi fossero stati accompagnati a superare le loro parzialità e a mettere in gioco tutta la forza della loro proposta fenomenologico-ontologica, forse dogmatica e liturgia avrebbero potuto incontrarsi in una sistematica nuova. Ma così non fu.

 (continua – 2)

 

1 Per un quadro più completo di tali riduzioni si veda la sintesi operata dal prof. A. Grillo su questo medesimo sito internet: http://www.cittadellaeditrice.com/munera/nuova-teologia-eucaristica-13-hoc-facite-il-modello-classico-di-presenza-eucaristica-zeno-carra2/

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