L’Amazzonia non è una selva oscura. L’ Instrumentum Laboris su ministero e liturgia


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L’Amazzonia non è una selva oscura
L’ Instrumentum Laboris su ministero e liturgia

 

“Al presente bisogna invece che in questi nostri tempi
l’intero insegnamento cristiano sia sottoposto da tutti
a nuovo esame, con animo sereno e pacato”
Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia, 1962

 

La pubblicazione dell’Instrumentum Laboris in vista del Sinodo speciale dedicato alle Chiese della Amazzonia, offre alla Chiesa cattolica una occasione particolare: riflettere sulla tradizione a partire da una contingenza sorprendentemente “differente”. Questo mette alla prova le categorie di universalità e di continuità, che dovranno essere verificate “in loco”, in relazione ad uno sguardo “romano”.
Ad una prima lettura il testo appare molto promettente: elabora una serie di questioni in modo aperto, chiaro, senza troppe esitazioni o circonlocuzioni. Molti sono i temi di cui sarebbe giusto occuparsi e altri potranno farlo in modo adeguato. Mi limito qui ad esaminare soltanto quei passi che appaiono legati a due questioni fondamentali, circa l’esercizio del ministero e circa la celebrazione liturgica.

Una premessa di “rispetto”

Un errore che rischia di compromettere la lettura del testo, e poi dell’evento, è quello di non tener conto che si tratta di una “Sinodo speciale”: che coinvolge una “porzione di Chiesa”, identificata geograficamente e storicamente come Amazzonia. Regione vasta, articolata, non univoca. Ciò che si elabora nel Sinodo riguarda quella tradizione complessa, da essa trae spunto e ad essa cerca di provvedere. Ogni elaborazione “universale” non può essere immediata. Rispettare questa logica “locale” è uno dei requisiti perché il percorso complessivo risulti positivo, tanto per le Chiese che sono in Amazzonia, quanto per tutte le altre Chiesa e per la Chiesa universale tutta.

Una serie di affermazioni-chiave, con commento

Vorrei ora presentare e commentare una serie di affermazioni, che attraversano la prima parte del documento, e che costituiscono il supporto necessario per intendere quelle successive:

– “Il processo di conversione a cui è chiamata la Chiesa implica disimparare, imparare e rimparare” (102). La Chiesa deve disimparare. Per poter imparare qualcosa di diverso e reimparare l’unica tradizione comune, ma con altre parole, con altri gesti, con altri canti, con altre autorità, con altre forme. Potremmo trovare il precedente illustre di di questo testo in SC 23, che mette in relazione “sana tradizione” e “legittimo progresso”: non tutta la tradizione è sana. Alla tradizione malata si reagisce con la riforma. Questo non vale solo per la liturgia. Il cammino sinodale della Amazzonia deve “disimparare” la tradizione malata.

– Tale processo di conversione “esige dalla Chiesa in Amazzonia proposte «coraggiose», il che presuppone audacia e passione, come ci chiede Papa Francesco” (106). Trovo curioso che il testo riferisca “audacia e passione” ad una richiesta del papa. In realtà è la “vita della Chiesa” a chiedere audacia e passione. Il papa la interpreta anche dal centro, non solo dalla periferia. Ed è qui un primo punto delicato. Chi vive e crede in Amazzonia sa che cosa chieda audacia e passione. E’ possibile che Roma lo capisca? Questo è il punto. Ci sono i vescovi della Amazzonia, c’è il papa: e in mezzo? Il Sinodo dovrebbe restituire alla Chiesa una “mediazione autorevole” della audacia e della passione che conserva la tradizione viva.

– “Una Chiesa dal volto amazzonico nelle sue molteplici sfumature cerca di essere una Chiesa “in uscita” (cf. EG 20-23), che si lascia alle spalle una tradizione coloniale monoculturale, clericale e impositiva e sa discernere e assumere senza timori le diverse espressioni culturali dei popoli.” (110)

Il “rostro amazonico” della Chiesa è implicato in un complesso superamento di una “tradizione malata” che viene identificata con 4 aggettivi: coloniale, monoculturale, clericale e impositiva. Assumere le espressioni culturali dei popoli della Amazzonia, con discernimento e senza timore. Questo è il compito, che riguarda un lavoro di inculturazione e di interculturazione.

Liturgia e ministeri, altrimenti

Vengo ora alle principali affermazione che riguardano liturgia e ministero

– “Certamente la diversità culturale non minaccia l’unità della Chiesa, ma esprime la sua autentica cattolicità mostrando “la bellezza di questo volto pluriforme” (EG 116). Per questo “bisogna avere il coraggio di trovare i nuovi segni, i nuovi simboli, una nuova carne per la trasmissione della Parola, le diverse forme di bellezza che si manifestano in vari ambiti culturali…” (EG 167). Senza questa inculturazione la liturgia può ridursi in un “pezzo da museo” o in “un possesso di pochi” (EG 95).” (124)

La diversità cultura non minaccia l’unità. Questa è una affermazione-chiave. Un volto pluriforme della tradizione non viene pensato più come sconfitta della uniformazione, ma come ricchezza di differenziazione. Questo vale anzitutto per la liturgia, che non può essere compresa nella categoria del “pezzo da museo”. Questo passaggio sarà molto delicato. Perché si scontra con una mentalità e una sensibilità che negli ultimi 20 anni ha cercato di avvalorare proprio questa idea “statica” e “malata” di liturgia. La Amazzonia non può sopportare quello che un europeo può addirittura desiderare. La specificità di un luogo e di una tradizione ci consente di rivedere le categorie distorte con cui pretendiamo di fare i conti con la nostra storia. E di leggerle in modo nuovo.

– “I sacramenti devono essere fonte di vita e rimedio accessibile a tutti (cf. EG 47), specialmente ai poveri (cf. EG 200). Occorre superare la rigidità di una disciplina che esclude e aliena, attraverso una sensibilità pastorale che accompagna e integra (cf. AL 297, 312).” (126b)

La ri-elaborazione universale delle categorie di evangelizzazione (EG) e di integrazione (AL) permettono al testo di rileggere diversamente la stessa tradizione sacramentale, contrapponendo con decisione una lettura “disciplinare” che esclude ed aliena, rispetto ad una sensibilità pastorale che diventi capace di accompagnare e di integrare.

– “Le comunità hanno difficoltà a celebrare frequentemente l’Eucaristia per la mancanza di sacerdoti. “La Chiesa vive dell’Eucaristia” e l’Eucaristia edifica la Chiesa.[60] Per questo, invece di lasciare le comunità senza l’Eucaristia, si cambino i criteri di selezione e preparazione dei ministri autorizzati a celebrarla” (126c)

Qui troviamo una delle affermazione più forti e decisive del documento. La centralità della celebrazione eucaristica deve indurre ad una conversione pastorale di estremo rilievo, che ha come esito il cambiamento dei criteri di selezione e di preparazione dei ministri autorizzati a celebrare la eucaristia: qui è evidente che il tema “liturgico” e il tema “ministeriale” si intrecciano in profondità. Da un lato la liturgia non è rigida, ma aperta alla integrazione delle culture; ma dall’altro è talmente centrale che ad essa devono piegarsi anche i criteri di “selezione e preparazione”: ossia le forme ministeriali possono e debbono trovare una nuova elasticità, che, come vedremo subito sotto, esige una rilettura dei “soggetti autorevoli” all’interno della comunità.

– “La Chiesa deve incarnarsi nelle culture amazzoniche che possiedono un alto senso di comunità, uguaglianza e solidarietà, per cui il clericalismo non è accettato nelle sue varie forme di manifestarsi.” (127) e poi: “Le distanze geografiche manifestano anche distanze culturali e pastorali che, quindi, richiedono il passaggio da una “pastorale della visita” a una “pastorale della presenza”, per riconfigurare la Chiesa locale in tutte le sue espressioni: ministeri, liturgia, sacramenti, teologia e servizi sociali.” (128)

Una riconfigurazione della Chiesa esige un passaggio delicatissimo che, superando il clericalismo, sappia trasformare la “pastorale della visita” in “pastorale della presenza”. Ciò ha un impatto fortissimo a tutti i livelli di esperienza e di espressione. Lo vediamo subito nelle richieste che vengono dalla Amazzonia.

Le richieste fondamentali

Infine vengono indicate, in modo estremamente chiaro, le principali richieste. Qui leggiamo orizzonti di ripensamento locale, i cui effetti sulla tradizione comune potranno essere valorizzati nel tempo, a partire da questo possibile precedente. Il lungo testo è giustificato dalla sua importanza.

– “I seguenti suggerimenti delle comunità recuperano aspetti della Chiesa primitiva quando rispondeva alle sue necessità creando ministeri appropriati (cf. Atti 6,1-7; 1 Tim 3,1-13):
a) Nuovi ministeri per rispondere in maniera efficace ai bisogni dei popoli amazzonici:
1. Promuovere vocazioni autoctone di uomini e donne in risposta ai bisogni di un’attenzione pastorale sacramentale; il loro contributo decisivo sta nell’impulso ad un’autentica evangelizzazione dal punto di vista indigeno, secondo i loro usi e costumi. Si tratta di indigeni che predicano agli indigeni con una profonda conoscenza della loro cultura e della loro lingua, capaci di comunicare il messaggio del Vangelo con la forza e l’efficacia di chi ha il loro bagaglio culturale. È necessario passare da una “Chiesa che visita” ad una “Chiesa che rimane”, accompagna ed è presente attraverso ministri che emergono dai suoi stessi abitanti.
2. Affermando che il celibato è un dono per la Chiesa, si chiede che, per le zone più remote della regione, si studi la possibilità di ordinazione sacerdotale di anziani, preferibilmente indigeni, rispettati e accettati dalla loro comunità, sebbene possano avere già una famiglia costituita e stabile, al fine di assicurare i Sacramenti che accompagnano e sostengono la vita cristiana.
3. Identificare il tipo di ministero ufficiale che può essere conferito alle donne, tenendo conto del ruolo centrale che esse svolgono oggi nella Chiesa amazzonica.” (128a)

I tre livelli, nell’orizzonte dischiuso dalla Chiesa primitiva, vengono identificati e corrispondono a tre dimensioni diverse della domanda: una ministerialità autoctona di predicazione, la ordinazione di “anziani sposati” alla presidenza eucaristica, una configurazione ministeriale ufficiale da conferire alle donne. Il testo respira a pieni polmoni dentro la tradizione amazzonica. Sarebbe un grave errore pensarlo semplicemente a partire dalle nostre categorie tridentine, quasi come un “giochetto” per dare “riconoscimento burocratico” ad un organigramma di chiesa locale. Qui si tratta, invece, di assumere pienamente la originalità amazzonica – di cultura, di esercizio di autorità maschile e femminile – come caso serio per produrre un legittimo progresso e superare una tradizione malata in nome della sana tradizione.

– Una ulteriore specificazione viene, allo stesso numero 128, dal punto c, che merita di essere citato integralmente:

“c) Ruolo della donna:
1. In campo ecclesiale, la presenza delle donne nelle comunità non è sempre valorizzata. Viene chiesto il riconoscimento delle donne a partire dai loro carismi e talenti. Esse chiedono di recuperare lo spazio dato da Gesù alle donne, “dove tutti/tutte possiamo ritrovarci”.[61]
2. Si propone inoltre di garantire alle donne la loro leadership, nonché spazi sempre più ampi e rilevanti nel campo della formazione: teologia, catechesi, liturgia e scuole di fede e di politica.
3. Si chiede anche che la voce delle donne sia ascoltata, che siano consultate e partecipino ai processi decisionali, e che possano così contribuire con la loro sensibilità alla sinodalità ecclesiale.
4. Che la Chiesa accolga sempre più lo stile femminile di agire e di comprendere gli avvenimenti.” (128c)

La integrazione della donna, oltre che sul piano ufficiale e ministeriale, esige forme culturali ed istituzionali di integrazione ecclesiale. La partecipazione ai processi decisionali costituisce una esigenza che non deve essere pensata a partire dal nostro concetto europeo di “parità di diritti”, ma a partire da tradizioni di cultura “matrilineare”, in cui di fatto è la donna a gestire la autorità familiare e del gruppo. La provocazione antropologica e cultura diventa stimolo ad una Chiesa che voglia essere, davvero, propter homines.

D’altra parte, bisogna ricordare che rimane importante

– “Promuovere la dignità e l’uguaglianza della donna nella sfera pubblica, privata ed ecclesiale, assicurando canali di partecipazione, combattendo la violenza fisica, domestica e psicologica, il femminicidio, l’aborto, lo sfruttamento sessuale e la tratta, impegnandosi a lottare per garantire i suoi diritti e per superare ogni tipo di stereotipo” (146e)

Il superamento di ogni tipo di stereotipo è un passaggio assai delicato, non solo per la società, ma per la Chiesa. Reagire alle richieste che vengono dalle terre attraversate dal Rio delle Amazzoni mette alla prova la Chiesa, nel saper riconoscere la comunione e il Vangelo vissuto senza lasciarsi dominare dagli stereotipi che non permettono di “vedere le vite”.

Un’ultima annotazione importante

Amazzonia non è solo foresta o fiume o relazione primaria, è anche città e società complessa. Il testo dice qualcosa di importante anche su questa differenza:

– “L’indigeno in città è un migrante, un essere umano senza terra e un sopravvissuto a una storica battaglia per la delimitazione della sua terra, con la sua identità culturale in crisi. Nei centri urbani, le agenzie governative spesso si sottraggono alla responsabilità di garantire i loro diritti, negando la loro identità e condannandoli all’invisibilità.” (132)

Il problema delle forme di vita può rende una metropoli come Manaus molto simile a Roma. La distanza geografica si confonde con la distanza culturale e tecnologica. La indifferenza verso la diversità diventa un problema non solo “esterno”, ma “interno” alla Amazzonia. Questa è una sfida davvero grande e decisiva: onorare e integrare la diversità culturale, civile ed ecclesiale. Per affrontarla positivamente a Roma sarà necessaria una grande misura di audacia e di passione. Senza paura e con molta speranza. Ma anche con una disponibilità a pensare altrimenti, ad elaborare categorie nuove, a rivedere le nozioni classiche, a ripensare gli sviluppi storici, senza cadere in quegli stereotipi da museo, che avrebbero subito un effetto paralizzante e immunizzante. L’Amazzonia non è una “selva oscura”, ma una occasione preziosa per onorare la realtà e per riscoprire la vivacità della nostra tradizione comune.

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