La recezione di “Amoris Laetitia” (/12): I torti e le ragioni dei canonisti, con due domande


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Al primo apparire, un anno fa, del testo ufficiale di Amoris Laetitia, tutti hanno potuto subito registrare un diffuso imbarazzo che saliva dagli ambienti dei canonisti. Le parole più dure sul testo e le incomprensioni più radicali delle sue intenzioni sono venute proprio da alcuni esponenti di quegli ambienti. Forse anche a causa di un fatto non trascurabile, ossia della riforma che con Motu Proprio il papa aveva introdotto durante la fase intersinodale, nell’agosto del 2015, con operatività a partire dall’8 dicembre dello stesso anno, e che molti ambienti giuridici ecclesiastici hanno vissuto e subito quasi come un “colpo di mano”.

Questo fatto ha determinato, in una larga parte degli ambienti canonistici, una sorta di “pregiudizio”, che si è immediatamente tradotto in una recezione piuttosto tiepida della riforma e in un atteggiamento di sufficienza nei confronti dell’intero processo sinodale e dei suoi esiti pastorali.

Di qui una serie di conseguenze non di poco conto come:

– una lettura formalistica della Esortazione Apostolica, che spesso, anche senza la intenzione esplicita, veniva a coincidere con le letture dogmaticamente e sistematicamente più chiuse e più reazionarie. Di fatto il canonista, in più di un caso, ha poggiato la sua “tecnica giuridica” su una comprensione della Chiesa, del sacramento e della teologia del tutto inadeguata;

– una forma di profondo scetticismo verso la riabilitazione del “foro interno”, che è stato percepito come una minaccia del foro esterno e come un abbassamento del grado di “certezza del diritto” dell’intero sistema canonico;

– una vera incomprensione di quella dimensione nuova – il “foro pastorale” – che AL introduce proprio per rispondere alle carenze che progressivamente il “sistema matrimoniale canonico” ha manifestato, a partire dagli anni 60 del secolo scorso.

Precisamente nell’anno anniversario del primo Codice di Diritto canonico (1917-2017) i canonisti si sono trovati quasi spiazzati e scavalcati da una iniziativa pastorale senza precedenti e che facilmente sono stati portati a considerare o avventata o inefficace. Un esempio di questa difficoltà è apparso di recente sulle riviste, da parte di un “canonista laico”, che ha mostrato con dovizia di esempi a quale livello di cecità possa giungere la ermeneutica canonistica di fronte ad Amoris Laetitia e al resto del pontificato di Francesco (rimando qui all’istruttivo dibattito tra Consorti e Zanotti di cui riferisco in un mio post precedente, che si può leggere qui).

Di fronte a questi sviluppi forse inattesi, mi sembra giusto indicare non solo i molti torti e ma anche alcune ragioni dei canonisti. Cui farò seguire due domande, che possano aprire un vero dibattito intorno alle questioni giuridicamente più urgenti che AL inaugura, ma non risolve.

I torti dei canonisti

Impalcati da un secolo in una struttura positivistica di rapporto con la legge, i canonisti sono diventati, decennio dopo decennio, sempre meno critici. Si sono adattati ad un ruolo meramente “esecutivo”, senza esercitare quella classica funzione critica che da sempre ha animato e reso vitale il corpo della Chiesa nel divenire storico delle fede e dei costumi. Il giurista che si barrica dietro il codice finisce per perdere il rapporto con la realtà. Nel caso del diritto matrimoniale canonico, una lunga tradizione di conflitto con lo Stato moderno – alla cui luce anche il Codice è sorto e si è strutturato – ha paralizzato ogni iniziativa critica, ha rinserrato le fila in una contrapposizione tra il canonico e il civile in cui, progressivamente, si è perso il rapporto con le opere e i giorni di uomini e donne. Così, mentre ci si aspetta dai canonisti una capacità di lungimiranza e di discernimento superiore, quasi tutti i canonisti che sono intervenuti durante il Sinodo sapevano solo mettere in guardia dai cambiamenti, additare gli errori e configurare orizzonti apocalittici anche per il caso di piccoli mutamenti della disciplina.

La diffusa lamentela circa la “grande confusione” che AL avrebbe introdotto nella pastorale familiare dipende da una confusione quasi irrimediabile: il fine del Codice non è ordinare le scrivanie dei canonisti, ma produrre un ordine nella vita delle “anime” dei cristiani. La “confusione” che esiste nella realtà deve intaccare le scrivanie, per poter essere risolta. Scrivanie ordinate in un mondo confuso non sono un segno di forza, ma di drammatica debolezza.

La rilettura delle novità di AL con le categorie vecchie ha prodotto in molti canonisti imbarazzo, paralisi, stizza e sconforto. Volevano una Chiesa ordinata, o almeno una scrivania ordinata: e scoprono che così non può più essere. E che spetta, anche a loro, prendersi cura del disordine e scoprirvi, dentro, un ordine nuovo, diverso, più profondo.

Le ragioni dei canonisti

Nonostante questi limiti piuttosto vistosi, che riguardano – si intenda bene – non una intera categoria, ma numerosi suoi rappresentanti, una istanza vera e meritevole di attento ascolto si leva in modo più o meno scomposto da queste loro reazioni. Si tratta di un punto di vista squisitamente istituzionale, di cui AL non si occupa direttamente, ma che a giusto titolo un canonista non può e non deve affatto trascurare.

Per spiegarmi cerco di dire la novità di Amoris Laetitia in modo sintetico, per trarne la “questione istituzionale” che sta giustamente a cuore al canonista e non solo a lui. Se AL ridefinisce le condizioni complessiva di esistenza familiare all’interno della Chiesa, superando una lettura “oggettivistica” che la dottrina e il diritto canonico avevano pensato come l’unica possibile e recuperando la differenza e la rilevanza delle “condizioni soggettive” all’interno di questo modello generale, si pone perciò un problema nuovo. A quali condizioni daremo “riconoscimento intersoggettivo” a queste nuove forme di “comunione familiare”?

Qui, per essere il più possibile concreti, dobbiamo esemplificare. Secondo AL una coppia di “divorziati risposati”, che si sia messa in cammino, che abbia percorso la sua strada di dolore e di penitenza, e che riconosca quel bene possibile al quale è stata chiamata, pur consapevole della differenza tra questo bene possibile e il bene compiuto e pieno, cionondimeno può rientrare nella pienezza della comunione ecclesiale. Questa “mediazione pastorale” – che accompagna, discerne e reintegra – quale conseguenze istituzionali può avere? E in che modo queste conseguenze possono essere “riconoscibili” e “opponibili a terzi”?

Di fatto, su questo piano, per dirla brutalmente, per il diritto civile vale il “secondo matrimonio”, mentre per il diritto canonico vale soltanto il “primo”. Ovviamente parlo qui della ipotesi in cui il primo matrimonio non sia stato oggetto di giudizio intorno alla nullità. Nessuno deve dubitare del fatto che il canonista, quando pone questa domanda, stia sollevando una questione non solo legittima, ma lungimirante. Ecco allora che proprio la “ragione canonica” può permetterci di recepire pienamente AL, ma solo a certe condizioni. Provo a formularle in due domande, che sottopongo alla attenzione dei canonisti.

Due domande ai canonisti

Le due domande che pongo sono, per così dire, incrociate: la prima scende dall’alto della prassi giudiziale canonica e cerca di intercettare il “foro pastorale” che AL ha inaugurato; la seconda, invece, risale dal basso del “foro pastorale” e attende una forma di recezione formale e istituzionale garantita dalla sapienza canonica.

La prima domanda suona così: siamo certi che il processo canonico per esercitare il giudizio sulla validità del vincolo costituisca l’unica via per porre rimedio ad una condizioni di “sfasatura” tra ideale evangelico e realtà di vita dei soggetti? Questa procedura, che viene da lontano, ma che è anche nata e si è sviluppata in un contesto sociale ed ecclesiale in cui la coscienza del singolo e la storia dei soggetti poteva essere ricondotta semplicemente ad un “inizio valido”, può continuare ad essere l’unica forma consentita dall’assetto sacramentale del matrimonio? Non vi è qui un punto cieco, in cui la tradizione canonica appare paralizzata da una cattiva teologia, e una buona teologia non sa tradursi in più adeguate discipline giuridiche?

La seconda domanda suona invece così: non spetta forse al canonista, al di là della prima questione qui sollevata, provare a configurare la “riconoscibilità giuridica” della condizione delle “famiglie aperte”, che abbiano nuovamente ottenuto la comunione ecclesiale, ma che abbiano il problema dello “statuto giuridico” della loro condizione? La “dispensa” dal matrimonio canonico o la “morte morale” del vincolo sacramentale non potranno essere, ragionevolmente, le vie per acquisire anche formalmente la nuova condizione? I canonisti tedeschi e francesi, che hanno elaborato negli ultimi anni modelli di “traduzione canonica” delle esperienze delle famiglie allargate, sono del tutto assenti dagli orizzonti del canonisti italiani? E quali ragioni, che non siano fondate in una teologia statica e autoreferenziale, possono ancora giustificare questo silenzio?

Si tratta di due domande piuttosto rozze e formulate anche con linguaggio approssimativo, ma che cercano di cogliere due questioni su cui i canonisti penso che dovrebbero parlare piuttosto che tacere. E sono certo che la comunità ecclesiale abbia urgente bisogno di una parola competente e coraggiosa in questo campo delicato e decisivo. Ne va della piena recezione di AL, ossia di una recezione che colga AL non come una piccola fine, ma come un grande inizio.

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