Grammatica e sintassi del ministero ecclesiale. “Spiritus Domini” come “cambio di paradigma”


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Il compito della teologia –  come dice una lunga tradizione e come di recente è stato sintetizzato da papa Francesco nel famoso discorso alla Collegio degli scrittori della Civiltà Cattolica (cfr. qui) – è servizio ecclesiale che si nutre di tre “i”: inquitudine, incompletezza e immaginazione. Ovviamente il magistero della cattedra pastorale si nutre in modi differenziati del lavoro teologico. Lo assume, lo studia, lo tollera e talvolta lo contrasta. A sua volta il magistero della cattedra teologica, che elabora la tradizione nel senso più completo e più libero, si trova a interagire con il magistero episcopale e papale in forme ora più pacate, ora più conflittuali.

Resta comunque la grande differenza tra la “immediata efficacia” del magistero episcopale e la “efficacia mediata” del magistero teologico.  In tal senso proseguire sulla strada aperta dalle proposizioni del magistero è una parte del lavoro che la teologia compie “per mestiere”. Non ha carattere eventuale, ma necessario.

In questo caso vorrei soffermarmi sulla rilettura di due testi, che nei giorni 10-11 gennaio 2021 – meno di un mese fa – papa Francesco ha firmato sul tema dei “ministeri istituiti” e che rappresentano, per la teologia cattolica del ministero ecclesiale, un passaggio che non è esagerato definire “di svolta”. Siamo di fronte ad un “cambio di paradigma”, sui cui effetti facciamo fatica ad esercitare una adeguata immaginazione.

Come sempre, anche di Cristoforo Colombo, si potrebbe dire: è stato un errore, voleva andare in India e ha fallito. Anche di questi due testi recenti si è potuto leggere: nulla di nuovo, ci si limita a registrare quello che si fa da 50 anni, siamo sempre in ritardo, una cosa ridicola…

In realtà in questi due testi troviamo, per la prima volta espresso in modo ufficiale nella lunga storia della chiesa cattolica antica, medievale, moderna e contemporanea, il superamento di una “riserva maschile del ministero ecclesiale” che è stata considerata, per molti secoli, elemento che apparteneva alla “sostanza del ministero stesso”. Questo passo ha un valore in sé, che supera una “evidenza classica”, assumendo una nuova visione. Perciò vorrei presentare i punti di novità dei due testi e porre in luce come appaiano ufficialmente forme argomentative la cui fecondità non sarà facile arrestare in futuro.

a) Il Motu Proprio “Spiritus Domini”

Con una tecnica non rara, il primo documento, direttamente operativo, è assai breve e si limita a compiere, con la autorità di un “motu proprio”, una modifica del Codice di Diritto canonic0 (can. 230), del quale fa cadere la “riserva maschile” stabilita per quelli che venivano chiamati, prima del 1972, “ordini minori” e che da allora sono chiamata “ministeri istituiti”. E’ evidente che questa “svolta” – che fa cessare la esclusiva maschile per l’accesso a lettorato e accolitato – si basa sul grande “cambio di paradigma”  che prima il Concilio Vaticano II aveva realizzato sul piano degli “ordini maggiori”, e che Ministeria quaedam di Paolo VI ha realizzato sul piano degli “ordini minori”. Riassumiano sinteticamente questi due passaggi:

– Il Concilio rilegge gli ordini maggiori in modo assai articolato: recupera l’episcopato all’interno del sacramento dell’ordine come sue vertice; esclude il suddiaconato; supera la strutturale distinzione tra “potestas ordinis” e “potestas iurisdictionis”.

– Con Ministeria quaedam non solo si riducono a “due” gli ordini minori (da 4 o 5 che erano), ma essi vengono scorporati dal sacramento dell’ordine e incardinati sul sacramento del battesimo. Non sono più “gradi inferiori” del ministero ordinato, ma “articolazioni ufficiali” dei carismi dei battezzati.

Si tratta di una rilettura potente, sistematicamente e praticamente assai audace, i cui effetti lentamente stanno prendendo corpo e forma. Ma in quella riforma, che pure aveva così profondamente ripensato la tradizione, la “riserva maschile” ad ogni grado del ministero – istituito o ordinato – restava degna di venerazione e dunque non superata.

b) La lettera che accompagna “Spiritus Domini”

In una lettera, che reca la data del giorno successivo, papa Francesco espone le argomentazioni che hanno condotto al provvedimento del giorno precedente. E nel testo si trova una appassionata rilettura della tradizione ministeriale della Chiesa, la quale, nella storia, senza mai deflettere dalla fedeltà alla parola ricevuta dal Signore, interpreta diversamente le forme della autorità e l’esercizio di “uffici” per la vita della Chiesa.  La “interpretazione che la chiesa dà di sé” fa parte della sua tradizione. E così, senza che vi sia infedeltà, è possibile che alcune forme siano sostituite da altre: anche questo non è “superamento”, ma “inveramento” della tradizione. Sul piano ermeneutico il testo lavora con finezza sulla pretesa “riserva maschile”, in vista di una comprensione più ampia. Si passa da una visione più stretta ad una più larga del ministero fondato su battesimo, cresima e eucaristia.

Al centro della lettera vi è una frase che ha un valore decisivo: “Essendo il sacramento dell’Ordine riservato ai soli uomini, ciò era fatto valere anche per gli ordini minori.” Sul piano teologico si tratta di una “descrizione” di ciò che “per secoli” si è ritenuto vincolante e, diremmo, sostanziale. Ma, se esaminiamo dal punto di vista sistematico, le novità con cui oggi facciamo i conti sono almeno tre:

– gli ordini minori non sono più tali, ma sono, appunto, ministeri istituiti, che discendono dalla iniziazione cristiana, non dal sacramento dell’ordine;

–  la riserva agli uomini oggi non riguarda il “sacramento dell’ordine”, ma la “ordinazione sacerdotale”, ossia il grado dell’episcopato e del presbiterato, non quello del diaconato;

– la relazione tra ministeri ordinati e ministeri istituiti non è parallela alla evidenza della riserva maschile: il grado del diaconato, pur essendo interno ai “ministeri ordinati”, non è coperto dalla riserva citata dalla Lettera e risalente a “Ordinatio sacerdotalis” del 1994.

Questo significa che, tra la distinzione interna al ministero operata da Paolo VI nel 1972 e le parole di Giovanni Paolo II sul sacerdozio non vi è completa sovrapposizione. L’esercizio della parola autorevole, nella Chiesa, non è riservata soltanto a battezzati di sesso maschile. Ciò che è stato venerabile, come la riserva, non è “di sostanza” per l’esercizio del ministero. E questo è, appunto, un vero cambio di paradigma.

c) Le parole definitive e le nuove evidenze

Anche la sociologia, o la fisiologia, come la geografia o la fisica, ha le sue “nuove evidenze”. La antica prassi di “ordinare” al lettorato e all’accolitato solo uomini aveva trovato, nella storia, diverse argomentazioni. La donna non è dotata di autorità; la donna, nel generare, è puramente passiva; la donna non deve avvicinarsi alle cose sacre perché, almeno una volta al mese, risulta impura. Un universo di cultura sociologica, fisiologica, biologica ha fatto sentire la sua autorità anche presso i teologi. Alcuni di essi continuano a frequentare questi pregiudizi, come se fossero parola di Dio.

Singolarissimo è osservare come queste visioni abbiano avuto la forza di convincere anche i più saggi tra gli uomini del passato: sul divieto di battezzare e di insegnare della donna Tertulliano è stato un maestro molto ascoltato, e quando Tommaso d’Aquino ha avuto la forza di correggerlo, ha dovuto ricorrere ad una evidenza non teologica, ma sociologica. Usando la sua “arte del distinguere” il Dottore Angelico ha formalizzato uno “spazio di autorità femminile” rigorosamente privato. Alla donna si poteva riconoscere autorità, ma solo residuale e mai in pubblico. Questa argomentazione, che prima non esisteva, ha resistito fino al XIX secolo. Così, un secolo dopo, poco prima della sua morte, Giovanni XXIII, in Pacem in terris, poteva riconoscere nella “entrata della donna nello spazio pubblico” uno dei “segni dei tempi” della nostra epoca. Per questo la piccola variazione testuale proposta da “Spiritus Domini” è un cambio di paradigma. La donna entra ufficialmente, con tutti i crismi, nello spazio pubblico della autorità ecclesiale. Non saranno certo le distinzioni sistematiche antiche o recenti a poter precludere a questo inizio tutto il suo sviluppo, pastorale ed ecclesiale. La riserva maschile, che è stata ritenuta sostanziale all’esercizio di ogni autorità ecclesiale, non è più, in quanto tale, una garanzia per la tradizione. Questo è un punto di non ritorno, per riflettere sul quale non basta una pur preziosa “teologia di autorità”, ma occorre che la teologia metta in campo tutta la sua autorità, senza paura e con molta pazienza.

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