Agamben e la domanda sbagliata


salmecamion

Fin dall’inizio di questa triste stagione della “pandemia”, mi sono accorto che Giorgio Agamben stava interpretando i fatti – o, forse meglio, alcuni aspetti dei fatti – in modo molto, troppo originale. Ora, con questo articolo apparso su SettimanaNews del 16/4/2020, “Una domanda”, ho compreso del tutto dove sta il problema della sua domanda. Ma andiamo per ordine: ricostruiamo la “sua” domanda, cerchiamone il senso, e confrontiamola con un’altra domanda.

1. La domanda sbagliata sulla barbarie nazionale

Fin dalle prime righe Agamben chiarisce quale sia la domanda che lo tiene agitato da più di un mese. Eccola: Com’è potuto avvenire che un intero paese sia, senza accorgersene eticamente e politicamente, crollato di fronte a una malattia?” Con questo crollo l’Italia avrebbe superato il limite tra umanità e barbarie. La domanda è, dunque “Come abbiamo potuto diventare barbari?”. E la barbarie consiste, per Agamben, in tre cose: nella morte e sepoltura senza esequie di tanti uomini e donne; nella concessione di limitare il nostro movimento e le nostre amicizie e amori; nell’aver affidato alla medicina di separare vita biologica e vita spirituale. Tutto questo, dice Agamben, è avvenuto “soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare”. E questo “principio di distanziamento sociale” diventerà “il nuovo principio di organizzazione della società”. Quindi “ciò che si è accettato di subire non potrà essere cancellato”.

Secondo Agamben tutti siamo responsabiliti di questo “cedimento”, ma soprattutto lo sono due soggetti, che non avrebbero vegliato sulla dignità dell’uomo. Anzituto la Chiesa, divenuta “ancella della scienza”, che è la nuova religione, e perciò Agamben ricorda alla Chiesa che Francesco, non il papa, il santo, abbracciava i lebbrosi, che “visitare i malati” è un’opera di misericordia, e che se si abbandona il prossimo si perde la fede. Ma anche i giuristi hanno le loro colpe, per aver lasciato che il potere esecutivo sostituisse il potere legislativo, determinando una deriva dispotica. Con il timore che lo “stato di eccezione” si mantenga per sempre. E dopo aver ricordato come anche Eichmann, il famoso nazista, avesse compiuto i più terribili crimini dicendo di obbedire alla legge morale, egli chiude il suo articolo con questa frase chiarificatrice: “Una norma, che affermi che si deve rinunciare al bene per salvare il bene, è altrettanto falsa e contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà”.

2. Il senso della domanda e la premessa falsa

La domanda, così come formulata da Agamben, impone una interpretazione dei fatti assolutamente univoca. In effetti, se vi fosse una situazione di una qualche incertezza, una vaga sensazione di pericolo, e un governo decidesse di affidare ai medici ogni potere, di chiudere in casa tutta una nazione e di separare drasticamente i vivi dai morti, sottraendo i secondi dal controllo dei primi, e “smaltendoli” nella maniera più disumana, Agamben potrebbe certamente alzare il suo grido scandalizzato e chiedere a tutti, anzitutto alla Chiesa e ai giuristi, di tornare in sé, di non tradire la loro vocazione e missione. Bene. Tutto questo scenario è subordinato, però, ad una ipotesi che non tiene conto della dura realtà. Perché questa domanda, se formulata così, sembra proprio una domanda retorica, una domanda vuota, una domanda campata per aria. Perché i tre “scandali” – i defunti senza esequie, le assenze di libertà e l’imporsi del presidio sanitario – non sono anzitutto la “strategia illusionistica per realizzare un colpo di stato”, in nessun modo possono essere ricondotti a ciò che Agamben, con una formula che dire riduttiva è un eufemismo, ha definito come una azione compiuta “soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare”. Io ho qui una impressione: fin dall’inizio di questa vicenda, quando i suoi contorni e la sua gravità non erano ancora del tutto chiari, Agamben ha preso questa linea di lettura: è una forzatura istituzionale, non c’è nulla di serio, si fa passare una influenza per una peste…Questa, in quel momento,poteva essere considerata una imprudenza, ma solo all’inizio, come è capitato a qualcun altro, e ci poteva anche stare. Il punto, però, è che oggi Agamben continua a lavorare con questa “premessa maggiore” della sua argomentazione. Il suo sillogismo, così, è diventato il più fallace e il più vuoto di tutta la storia della filosofia. Il filosofo dovrebbe sapere bene che se mette, all’inizio del ragionamento, una premessa falsa, tutto il resto delle sue parole tracolla come un castello di carte. Se tutto ciò che è accaduto, anche nelle sue forme più tragiche, viene letto sotto la luce di una “finzione” – la assenza di un reale pericolo per la vita di decine di migliaia di persone – è ovvio che contenimento, isolamento, distanziamento, presidio sanitario e “lettura medica” della realtà risultano solo come forzature, atti arbitrari, imposizioni dello stato di eccezione, sconfinamento nella barbarie.

3. Un’altra domanda, forse quella giusta

La domanda da sollevare, da parte di un filosofo, in una contingenza come questa, non può essere basata su una premessa falsa. Come abbiamo visto, nel testo di Agamben si parte dalla domanda, che è formulata subito, nelle prime righe. Poi se ne illustrano i contenuti, e l’autore è costretto a calare sul tavolo la sua “carta fasulla”. Alla fine si arriva alla conclusione, ed è lì che comprendiamo la debolezza più grande della sua argomentazione. Quando infatti egli scrive che una norma, che affermi che si deve rinunciare al bene per salvare il bene, è altrettanto falsa e contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà”. Proprio qui, in questa frase finale, si capisce tutto. Il bene e la libertà sono, per Agamben, concetti senza sfumature, senza mediazioni, senza gradi. Un massimalismo del bene e una totalizzazione della libertà producono solo scandalo senza esperienza. Che tanto più si rafforza nello scandalo quanto più non può permettersi alcuna esperienza. Per questo, invece, la domanda giusta sarebbe: “Come è potuto avvenire che un intero paese, pur soffrendo eticamente e politicamente, possa riuscire a reggere di fronte a una epidemia tanto grave?”.

Non è un caso che, nello sguardo di Agamben, siano proprio la Chiesa e i giuristi ad essere messi sul banco degli imputati. Quelli che nel suo testo appaiono come “traditori”, in realtà sanno da millenni che nella storia, in ogni storia, c’è un bene massimo e un bene possibile. E che la storia è proprio la difficile mediazione, sofferta e provvisoria, tra questi poli. Anche nella nostra storia di questi giorni, purché si accetti il principio di realtà – ossia la effettiva pericolosità del virus – occorre “contemperare” livelli diversi del bene. Solo in questo caso può essere cosa ragionevole e anche atto benedetto rinunciare a un bene per conseguirne un altro, rinunciare ad una libertà per garantirne una più importante. Ovviamente, non tutto ciò che è avvenuto è privo di limiti, di questioni o di domande assai legittime. Ma est modus in rebus. La frase che conclude il testo di Agamben – così drastica e in fondo così disumana – resta del tutto cieca su questo versante accorato e accurato della mediazione, di cui sono ricche legrandi tradizioni, tra cui quella ecclesiale e quella giuridica. E mentre queste sapienze millenarie sembrano garantire una apertura che può essere capace di restare “maestra in umanità”, la lettura ideologica e congetturale di Agamben appare solo come la espressione troppo accigliata e troppo nostalgica di una infanzia destinata a restare sempre senza storia.

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