A dieci anni da “Summorum Pontificum”: attualità di antiche preoccupazioni


Canizares in cappa magna

Ad un decennio dalla pubblicazione del Motu Proprio “Summorum Pontificum” (7 luglio 2007), ripubblico il commento a caldo che scrissi per “Il Regno” nel luglio di quell’anno e che fu pubblicato con il titolo: A. Grillo, Riflessioni e domande. Il motu proprio di Benedetto XVI ‘Summorum Pontificum’ e la sua recezione, “Il Regno”, 52/14(2007), 434-439. Il testo, a distanza di 10 anni, non ha perso molte delle sue ragioni. Lo ripubblico con il titolo originale  – modificato dalla rivista – e con alcuni passaggi inediti. Ovviamente il testo, essendo del 2007, non tiene conto della evoluzione successiva e in particolare del testo della Istruzione Universae Ecclesiae, della Commissione  “Ecclesia Dei”, che ha precisato e aggravato la applicazione del MP, a partire dal 2011. 

 

Paolo VI, Pio V e la realtà virtuale

A proposito del Motu Proprio “Summorum Pontificum”

Il lettore che si è accostato al testo del Motu Proprio “Summorum Pontificum” (= SP) e alla lettera ai Vescovi (=LV) sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma liturgica del 1970, sarà rimasto immediatamente colpito da una acuta sensazione di spaesamento, fino al punto di chiedersi: in quale tempo, in quale Chiesa, in quale liturgia e in quale messa mi sto imbattendo?

La causa di questa comprensibile reazione si trova nel particolare coraggio – oserei dire nella audacia – con cui Benedetto XVI ha voluto affrontare la questione spinosa della comunione e della unità della chiesa in contesto liturgico. La sua strategia consiste in una rilettura della storia dell’ultimo secolo che, pur mantenendo uno stile profondamente classico, produce una riflessione caratterizzata da un approccio di tale novità, da condurre appunto il lettore sulla soglia dello stupore, per non dire dello sconcerto. Per questa via si ha quasi la sensazione di essere di fronte alla configurazione autorevole di una “realtà virtuale”, orientata decisamente al superamento delle contrapposizioni ecclesiali, ma dotata di un impatto complesso e non poco problematico sulla “realtà reale”, nella sua concretezza quotidiana e nella sua mondana opacità. E ciò va rilevato, come ha fatto anche Camillo Ruini (Avvenire, 8/07/07), per evitare “il rischio che un Motu Proprio emanato per unire maggiormente la comunità cristiana sia invece utilizzato per dividerla”.

Per tentare una interpretazione complessiva del documento e dei suoi possibili effetti vorrei anzitutto presentarne il contenuto e le intenzioni, per poi valutare – con rispetto critico e in un leale dialogo nella comunione – l’impatto sulla realtà reale che una tale ricostruzione normativa (come “realtà virtuale”) potrebbe avere, nel futuro aperto della chiesa e della liturgia.

1. Il Motu Proprio “Summorum Pontificum”: due usi dello stesso rito

Il testo di SP esordisce con una lunga premessa di carattere storico, che, muovendo da Gregorio Magno per giungere fino a Giovanni Paolo II, illustra il cammino del “rito romano”, trovandovi un passaggio decisivo nell’opera di s. Pio V, promotore di quel Messale Romano che, “col passare dei secoli, a poco a poco prese forme che hanno grande somiglianza con quella vigente nei tempi più recenti”. Si giunge così alla Riforma voluta dal Concilio Vaticano II e al Messale riformato di Paolo VI, che, tradotto in tutte le lingue del mondo, è stato accolto di buon grado da Vescovi, sacerdoti e fedeli. E tuttavia si ricorda che già nel 1984 e poi nel 1988 fu necessario, da parte di Giovanni Paolo II, concedere a “non pochi fedeli” l’indulto per poter usare le “antecedenti forme liturgiche, che avevano imbevuto così profondamente la loro cultura e il loro spirito”. A partire da questa considerazione storica, SP decide di procedere ad un nuovo tipo di regolamento della questione. Nel ribadire che il Messale di Paolo VI rimane “espressione ordinaria della ‘lex orandi‘ della Chiesa cattolica di rito latino, si afferma che il messale tridentino, nella edizione di Giovanni XXII del 1962 deve essere considerato espressione extra-ordinaria della stessa ‘lex orandi‘ (art. 1). Vi sono dunque due usi di un’unica “lex orandi”, comune a Pio V e Paolo VI. Di qui deriva che “è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo il Messale tridentino del 1962”, che si ritiene “mai abrogato”. Le condizioni di tale celebrazione sono definite dai successivi 11 articoli: nelle messe “senza il popolo” vi è pieno parallelismo dei due “usi”, salvo nel Triduo pasquale (art.2); tale possibilità è estesa anche alle messe conventuali, salvo le competenze dei superiori maggiori (art.3); precisato che alle messe senza il popolo può essere ammesso anche ogni fedele che lo desideri (art. 4), si passa a determinare la disciplina per le messe con il popolo, dove un gruppo di fedeli “aderenti alla precedente tradizione liturgica” possono veder celebrata secondo la forma extra-ordinaria la messa feriale, una sola messa domenicale o festiva, oltre che celebrazioni in caso di matrimonio, di esequie o di pellegrinaggi (art.5): le letture, in questi casi possono essere anche in lingua vernacola (art.6). Se il parroco non risponde a queste esigenze, il Vescovo potrà provvedere o rivolgersi alla Commissione Ecclesia Dei per riferire e ricevere consigli e aiuti (artt. 7-8). In taluni casi al parroco è attribuita anche la facoltà di celebrare secondo l’uso più antico il Battesimo, il Matrimonio, la Penitenza e l’Unzione degli Infermi, così come agli Ordinari di celebrare la Confermazione con il precedente Pontificale Romano, e ai chierici di usare il Breviario Romano del 1962 (art.9). Infine si ipotizza il caso di erezione di parrocchie personali per assicurare la celebrazione secondo l’uso più antico (art.10), e si definiscono le nuova competenze della Commissione Ecclesia Dei, che vigila sulla applicazione di tutte queste disposizioni (artt. 11-12).

2. La lettera ai Vescovi : la Riforma liturgica non viene intaccata

La lettera, che Benedetto XVI ha indirizzato ai Vescovi in occasione della pubblicazione del Motu Proprio, ha tre nuclei tematici importanti. I primi due sono “timori” manifestatisi negli ultimi mesi e che il Vescovo di Roma vuole chiarire anzitutto ai confratelli Vescovi: anzitutto LV esclude che L’Autorità del Concilio Vaticano II venga intaccata da parte di SP, visto che si ribadisce che la forma ordinaria e normale del Messale Romano rimane quella promulgata da Paolo VI. E si ricostruisce poi la storia della presenza – accanto al Novus Ordo – dell’Ordo precedente, fino alla normativa attuale, che rimedia a ciò che “nel 1988 non era prevedibile”, per concludere dicendo: “queste Norme intendono anche liberare i Vescovi dal dover sempre di nuovo valutare come sia da rispondere alle diverse situazioni”. Il secondo timore è quello di chi ipotizza che questo parallelismo di “forme rituali” possa portare “a disordini o addirittura a spaccature nelle comunità parrocchiali”. Ciò viene escluso per il fatto che l’uso del Messale antico “presuppone una certa misura di formazione liturgica e un accesso alla lingua latina; sia l’una che l’altra non si trovano tanto frequentemente”. Si punta invece sul “reciproco arricchimento” delle due forme rituali. Infine, come terzo punto, LV espone la “ragione positiva” che ha motivato Benedetto XVI in questa sua nuova regolamentazione: ossia “di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa” facendo tempestivamente ogni sforzo possibile per garantire l’unità. E si formula, poi, la tesi che SP ha tradotto in normativa: “Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso”. Questo comporta anche una necessaria reciprocità: “anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi”. In conclusione LV prevede che, tre anni dopo l’entrata in vigore di SP, i Vescovi riferiscano alla Santa Sede sulle esperienze e sulle difficoltà venute alla luce.

3. La riflessione critica: la differenza tra intenzioni ed effetti, tra virtuale e reale.

Una volta considerati i contenuti di SP e di LV, occorre ora valutarne appieno le intenzioni e gli effetti, secondo quanto annunciato già all’inizio di questo resoconto. Naturalmente, a questo punto, il teologo sa di dover usare l’intellectus fidei non solo per ripetere o per applaudire, ma per svolgere quel servizio ecclesiale specifico della teologia, che risulta indispensabile al discernimento meditato e alla recezione critica. Sulla base di questa “vocazione ecclesiale del teologo” – da esercitarsi sempre con audacia e pazienza, con umiltà e coraggio – penso di dover individuare cinque grandi questioni, che meritano una pacata e urgente riflessione ecclesiale.

a) La questione giuridica: quale rito è vigente?

Già S.Tommaso d’Aquino, in uno dei suoi lampi di chiarezza, sosteneva che “Se noi risolviamo i problemi della fede col metodo della sola autorità, possediamo certamente la verità, ma in una testa vuota”. Questo ammonimento pretridentino vale anche quando con la nostra testa valutiamo accuratamente le affermazioni postridentine contenute nel Motu Proprio di Benedetto XVI. Vi si sostiene – per due volte – che “il rito di Pio V non è mai stato abrogato”: l’affermazione suona apodittica, senza alcuna giustificazione se non il fatto – certo assai rilevante – che viene pronunciata dal Papa stesso. Ma ciò non impedisce alla nostra testa, se non vuol essere vuota, di notare che una serie di altre affermazioni, che restano non contestate e del tutto valide, affermano una cosa sostanzialmente diversa: il can 20 del CJC, una famosa Risposta della Congregazione del Culto Divino del 19991 – ma anche la sapienza tradizionale di G. Siri2 – ci ricordano come la approvazione di un nuovo rito romano (dell’eucaristia come di ogni altra liturgia) conduca inevitabilmente il rito precedente ad essere sostituito da parte del nuovo. Come c’è un elementare bisogno di “certezza del diritto” così c’è un primario bisogno di “certezza del rito”: ora, sulla base di tutto ciò, non si può chiedere a nessuno di provare che il Messale di Paolo VI abbia abrogato il messale vigente dal 1962 al 1969, perché questo va da sé secondo il diritto liturgico comune; piuttosto sta a chi sostiene la non abrogazione di accollarsi l’onere di fornirne le prove: finché non si portano argomentazioni o elementi razionali dal punto di vista giuridico e liturgico, finché la “doppia forma contemporanea” viene solo affermata, ma non fondata e provata, si presume il principio generale: ossia che il rito romano più recente sostituisce il rito romano meno recente, e in tal caso il conflitto non si dà perché un solo rito, una sola forma e un solo uso è vigente, secondo il principio di diritto comune (oltre che di buon senso). Dal Papa che più intensamente ha rivalutato il ruolo della “ragione” nella riflessione sulla fede cristiana, questo silenzio della ragione sulla sua affermazione centrale – unita al fatto che i due papi suoi predecessori abbiano diversamente valutato il “rito postconciliare” come l’unico effettivamente in vigore, utilizzando la logica dell’Indulto per fare eccezione – costituisce una obiettiva questione che dovrà essere ulteriormente chiarita, per non lasciare una grave ambiguità su tutto il resto della argomentazione. Per autorità si obbedisce, ma la ragione desidera anche altro, che per ora cerca invano. Per citare Agostino: “Ad discendum item necessario dupliciter ducimur, auctoritate atque ratione. Tempore auctoritas, re autem ratio prior”3.

b) La questione teologica: qual è il ruolo della lex orandi?

 Lex orandi statuat legem credendi” (“la liturgia stabilisca la fede della Chiesa”). Questa famosa espressione di Prospero di Aquitania sta sullo sfondo dell’articolo più importante di SP (art. 1) ed è una delle bandiere del Movimento Liturgico, in quanto stabilisce la originarietà dell’azione liturgica per l’atto di fede. Di essa, tuttavia, il testo di SP propone una rilettura che introduce una distinzione originale e carica di conseguenze: il rapporto tra lex orandi e lex credendi è preceduto dal rapporto tra due diversi usi (o espressioni, o forme) rituali e una sola lex orandi. Ciò significa che qui l’espressione “lex orandi” non si identifica con il rito, ma con il significato del rito stesso. Introducendo questa distinzione, SP assolve nello stesso momento a due diverse compiti: apre uno spazio per avvicinare due usi diversi, conciliandoli in un’unica lex orandi ed evitando che due diverse “leges orandi” possano dar vita a due diverse professioni di fede; ma nello stesso tempo allontana la “lex orandi” dalla concretezza rituale che la contraddistingue. Se “lex orandi” non significa più il rito concretamente celebrato, ossia un “ordo” specifico, ma una sua dimensione essenziale, invisibile e/o concettuale, allora la funzione originaria del rito per la fede tende a passare irrimediabilmente in secondo piano. Qualcuno, che non avesse la “sensibilità liturgica” di Benedetto XVI, potrebbe addirittura leggere questa distinzione come la sostanziale subordinazione della celebrazione ad evidenze puramente dogmatiche, di cui i due “usi” costituirebbero traduzioni pratiche meramente conseguenti e per nulla originarie. In altri termini, la articolazione dell’unica “lex orandi” in due “forme” alternative ripristinerebbe il primato della teologia sulla liturgia, perdendo così uno dei guadagni più cospicui del Movimento Liturgico. Ancora, se si dice che vi è un’unico rito, in due “usi” diversi, come mai si parla storicamente di di due “ordines” diversi. L’ordo è solo un “uso” di un rito, o è invece il rito in quanto tale? E una differenza di ordines comporta o no una differenza rituale di “lex orandi”? Per rispondere a queste domande dovremmo meditare sul rapporto che SP può avere con alcune affermazioni della recente Esortazione apostolica Postsinodale “Sacramentum Charitatis”: quale teologia dei sacramenti potrà svilupparsi dalla “celebrazione” – secondo il “primato dell’azione litrugica di cui al n. 34 dell’Esortazione Postsinodale – se azioni diverse non mutano né lex orandilex credendi4?

In secondo luogo, mi chiedo se la stessa distinzione tra uso ordinario e uso extra-ordinario sia una distinzione di fatto o di diritto. Circa questo punto, che come abbiamo già visto appare teoricamente decisivo, restano alcune non irrilevanti perplessità, legate sia alla distinzione in quanto tale, sia alla effettiva equiparabilità tra i due diversi “usi”. In primo luogo, non è chiaro se la definizione tra uso ordinario/extra-ordinario sia una distinzione de facto o de iure. Nel primo caso sarebbe priva di forza normativa autentica, mentre nel secondo troverebbe confermata tutta la sua autorità. Ma dal tenore del testo potrebbe spesso desumersi – certo con una interpretazione estensiva, ma possibile – che ciò che di fatto è ordinario dovrebbe diventare extraordinario, mentre ciò che di fatto è extraordinario dovrebbe de iure intendersi come ordinario. Non sembra esserci una vera pedagogia dell’ordinario rispetto all’extra-ordinario. La assenza di controllo episcopale “in loco” circa il rapporto tra i due diversi usi inclina ulteriormente a ritenere che la distinzione non sia sufficientemente chiarificata nella sua natura “de iure”, rischiando di porre in crisi la pastorale ordinaria, non più controllabile in relazione alla liturgia, quando manca di un primato “de iure” chiaramente vincolante per tutti.

In secondo luogo, resta non del tutto chiarita la effettiva possibilità di trattare paritariamente due “forme” di cui la più recente non è altro che il frutto della meditata riforma della meno recente. In altri termini, è ben difficile che una liberalizzazione del rito più antico non possa suscitare una grave tensione in coloro che seguono il rito più recente, i quali inevitabilmente sentono il rito più antico come “superato”, “riformato” “emendato” dal proprio. I due “usi” non sono autonomi: uno è la risposta alla crisi dell’altro e perciò non può non sentire come un grave disagio il riapparire dell’antico accanto a sé, come se nulla fosse stato. Per di più, l’affiancamento di due “usi” paralleli, che si presenta come un “aggiungere senza nulla togliere”, in realtà introduce un elemento di disparità tra un uso “strutturalmente plurale”, come quello di Paolo VI – che si presenta nella varietà delle lingue e degli adattamenti ad esso costitutivo – e la monolitica univocità del rito tridentino, solo in latino e senza adattamenti di sorta.

c) La questione pastorale: garanzia di comunione ecclesiale e/o libertà di rito?

Nell’anno 2001, in un Convegno svoltosi nell’Abbazia di Fontgombault, J. Ratzinger, allora Cardinale Prefetto della Congregazione della Fede, sosteneva che l’auspicabile estensione del rito tridentino nell’uso ecclesiale doveva essere temperata dalla garanzia episcopale della unità liturgica nella diocesi5. SP abolisce le logiche dell’indulto del 1984 e del 1988 – che attribuivano all’autorità episcopale locale la possibilità di concedere le autorizzazione necessarie per fare eccezione ad una regola chiara. Tale logica si fondava appunto sulla ammissione che un solo rito è vigente, mentre un altro ha una praticabilità limitata, problematica e condizionata, che fa eccezione alla sua normale condizione di “rito non più in vigore”. Aver modificato la logica, sostituendola con il parallelismo tra due “usi” (o forme) del medesimo rito, pone di bel nuovo la questione: come potranno i vescovi assicurare la comunione ecclesiale sul piano litrugico, discernendo tra uso ordinario e uso extra-ordinario? In che modo potranno impedire che si crei un biritualismo conflittuale e che si introducano così divisioni, dissidi e incomprensioni nel corpo ecclesiale, non solo in ambito liturgico, ma anche nella catechesi, nella formazione, nella testimonianza, nella carità? Il dettato del documento rimane sul tema molto vago – per non dire insensibile -, attribuendo per di più una competenza dirimente – che scavalca le competenze ordinarie della Congregazione per il Culto – alla Commissione Ecclesia Dei, che nella sua storia recente non pare affatto accreditarsi come organo sufficientemente “super partes”. Se leggiamo la breve ma autorevole prefazione che il suo Presidente, il Card. Castrillon Hojos, ha scritto alla riedizione del “Compendio di Liturgia pratica” dell’indimenticabile Trimeloni, restiamo illuminati dalla perfetta mancanza di senso della storia, cui rimedia un ragguardevole sense of humour.

d) La questione liturgica: dalla Riforma necessaria alla Riforma accessoria?

Sia le interviste che hanno anticipato e accompagnato il documento, sia il tenore della stessa LV, ripetono insistentemente la assenza di ogni intento critico nei confronti della Riforma Liturgica realizzata in seguito alle direttive del Vaticano II. E di questo non si può dubitare, almeno per quanto riguarda le intenzioni profonde che animano il documento. Circa gli effetti obiettivi, tuttavia, nessuno potrà negare che la Riforma Liturgica, in seguito alla pubblicazione di SP, rischia di vedere potentemente relativizzato il proprio significato e la propria storica portata. Non sarebbe più in grado di indicare la via maestra della celebrazione, della formazione, della spiritualità, della edificazione, ma rappresenterebbe solo una aggiunta – pur ragguardevole – ad una tradizione precedente, che si ristabilirebbe intatta, con tutti i suoi riti e i suoi calendari, come se nulla fosse, aggiornando gli orologi ecclesiali al 1962. La Chiesa potrà vivere, contemporaneamnete, nel 2007 e nel 1962, subordinando la scelta non alla discrezione del vescovo, ma alla decisione dei fedeli e/o alla scelta “libera” del singolo presbitero. La Riforma liturgica, che aveva la necessità di riformare il rito romano tridentino per garantire la partecipazione attiva, risulterebbe così ridotta ad una semplice possibilità eventuale e ulteriore, incapace di incidere sulla tradizione “antica” e “alta” della messa, che risulterebbe così “irreformabile”. Una tale ipotesi di impatto effettuale del Motu proprio costituirebbe, a tutti gli effetti, una rilettura riduttiva e caricaturale delle intenzioni e delle profezie conciliari. Essa potrebbe correre il rischio di dimenticare che i nn. 47-57 di Sacrosanctum Concilium chiedono di riscoprire nell’eucaristia la ricchezza biblica, l’omelia, la preghiera dei fedeli, la lingua volgare, l’unità delle due mense, la comunione sotto le due specie e la concelebrazione. Si deve invece ricordare – e quasi si dovrebbe scrivere a chiare lettere sugli stipiti di tutte le sacrestie – che neppure uno solo di questi sette elementi si trova nel rito tridentino e che per renderlo nuovamente presente è stato necessario procedere alla sua riforma, per consentire al rito romano di ritrovare solo così una ricchezza altrimenti perduta. La libertà che domani si vorrebbe garantire vorrebbe essere la libertà di tornare ad essere poveri di parola biblica, poveri di omelia, poveri di preghiere dei fedeli, poveri di lingua volgare, poveri di comunione sotto le due specie e poveri di concelebrazione? Quale Chiesa potrebbe privarsi oggi di queste ricchezze senza perdere molto, moltissimo della sua capacità di testimonianza? E perché mai, in questo caso, la legge dovrebbe essere percepita come “pura regolazione dell’esistente”, senza assumerne tutta la potenza pedagogica e formativa, che in altri casi è stata tanto invocata e sottolineata?

e) La questione “di fatto”: chi sarà in grado di celebrare nel “rito antico”?

Diceva Chesterton, “quando entrano in chiesa, i cristiani si levano il cappello, non la testa”. E avere la testa sulle spalle, per il senso comune, significa anche non lasciarsi trasportare troppo dalle astrazioni o dalla immaginazione, per quanto sorrette dal desiderio. A furia di parlare di un “altro rito” è possibile convincersi che esso sia una cosa direttamente fruibile e gestibile, semper et ubique, da chichessia. In realtà, se si osa confrontarsi con la realtà delle cose, non è così e così non potrà mai essere. Si può presiedere o assistere al rito “antico” solo se si è stati accuratamente formati a ciò, come ammette lucidamente LV. La difficoltà radicale di questa ipotesi sta scritta irreversibilmente nella storia effettuale della Chiesa degli ultimi 40 anni. Da 40 anni noi formiamo i cristiani e gli stessi preti – almeno nel 95% delle diocesi – secondo le lingue, le culture, le teologie e le spiritualità scritte nei gesti e nei silenzi, nei testi e negli stili, nei riti e nei canti della nuova liturgia. Ciò è tanto vero per le menti e talmente radicato nei corpi, da portarci a credere che se domani qualche cristiano in buona coscienza si recherà dal proprio parroco, per chiedere la celebrazione della messa secondo il rito di Pio V, potrà sentirsi rispondere, in totale buona fede: “Mi perdoni, ma non ne sono capace: questa non è né la Chiesa né la liturgia in cui ho imparato a credere, a vivere e a pregare”. Noi tutti, che siamo stati formati dopo il Concilio Vaticano II – e siamo ormai la stragrande maggioranza nella Chiesa – siamo “oltre” la messa di Pio V: lo si voglia o no, indietro non si torna. Nella pastolare ordinaria della stragrande maggioranza delle diocesi non si dà più alcun “uso antico” realisticamente praticabile.

4. Un bilancio aperto e accorato

Di recente, in un articolo favorevole al ripristino della “messa antica” (La Repubblica, 3/7/07), René Girard affermava: “l’unità porta conflitto, il pluralismo porta la pace”6. Benedetto XVI direbbe che questo è “relativismo”. Ma se leggiamo SP, non troviamo in fondo un argomento molto simile? Non sarà invece che l’unità possa garantire una certezza di comunione, che invece la pluralità potrà scalfire, insinuando in ognuno la tentazione di essere l’unica e “vera” Chiesa? E non potrebbe essere, forse, che proprio questa svolta tradizionale della liturgia ecclesiale si lasci comprendere come una logica insolitamente liberale e secolarizzata del suo linguaggio e del suo pensiero? La libera scelta, in liturgia, non potrebbe essere letta da qualcuno come “indifferenza” verso la liturgia e come l’affermarsi di una sorta di “gnosi cristiana”?

Non certo sul piano delle intenzioni, ma sul piano di questa obiettiva e indiscutibile potenzialità dissonante di SP rispetto alla prospettive della Riforma liturgica, la teologia e la pastorale, rispettosamente critiche e criticamente rispettose, non possono non sollevare il proprio legittimo e leale rilievo critico: perché la comunione della chiesa non subisca un grave vulnus liturgico e perché la liturgia possa continuare ad essere culmen et fons e non mera esplicazione variabile e negoziabile della lex credendi.

Per tutti questi motivi, a me pare che la nobile intenzione di riportare la pace e la concordia nella liturgia cattolica abbia impiegato strumenti talmente “moderni” e “arditi”, da potersi prestare a letture che minacciano di compromettere gravemente la storia di questi ultimi 40 anni di Movimento Liturgico. In effetti, se dobbiamo essere d’accordo sulla esigenza che il Movimento Liturgico non è finito con il Concilio Vaticano II e con la Riforma, ma che continui anche dopo questi eventi, ciò si giustifica proprio in nome di una “tradizione” che ha bisogno non solo della difesa ad oltranza di un passato acquisito, ma anche della insostituibile ricchezza di un presente complesso e di un futuro aperto: “il persistere in una forma della liturgia di cui si pretende l’immutabilità può certo soddisfare il forte desiderio psico-religioso di continuità, ma non può realizzare l’esigenza di cogliere ‘l’ora della grazia’”7. Lo “sviluppo organico” della tradizione liturgica comporta inevitabili “svolte”, con una continuità che ha bisogno di alcune vitali discontinuità. Come accade alle generazioni – dove il figlio è pienamente figlio solo quando il padre non c’è più – un rito di Paolo VI, che avesse sempre accanto il rito di Pio V, resterebbe perennemente infantile e fragile; mentre un rito di Pio V che non si rassegnasse a perdersi nel figlio, cadrebbe in un paternalismo invadente e in un moralismo senza vera fiducia.

Se si volesse negare questo provvidenziale stacco, allora SP, che pure non manifesta mai questa intenzione, si presterebbe troppo facilmente ad essere letto – precisamente in questo salto tra “realtà virtuale” e realtà reale – come un avallo ad una lettura della tradizione non dinamica, ma statica, non vitale, ma monumentale e archeologica: dove nulla si perde, tutto si accumula, ma niente è più vivo. E a ragione, per scongiurare letture di questo tipo, bisognerebbe ricorrere a quello che M. Blondel diceva, 100 anni or sono, a difesa della dinamicità costitutiva della tradizione: “Invece di pensare che l’idea di sviluppo, che preoccupa tanti credenti, sia eterodossa, è il fissismo … ad essere una eresia virtuale”8. Distinguendo tra lex orandi è “usi” della stessa lex, il Motu Proprio apre la possibilità di subire su di sé il medesimo trattamento: altra cosa è ciò che dice, e altro sarà l’uso che probabilmente se ne vorrà fare: potremmo aspettarci, anche per SP, un “uso extra-ordinario” del suo dettato in termini accentuatamente tradizionalistici?

Dio non voglia che una ardita ricostruzione di una realtà virtuale, come quella disegnata da SP, possa dare un sostegno oggettivo e implicito – e quasi un eccesso di autorevolezza – non a pacificazioni reali, ma ad “eresie virtuali”.

1    Il canone 20 del Codex Juris Canonici recita: “Lex posterior abrogat priorem aut eidem derogat, si id expresse edicat aut illi sit directe contraria, aut totam de integro ordinet legis prioris materiam”. Coerentemente con questo principio, la Risposta della Congregazione per il Culto Divino del 3 luglio 1999 (prot. 1411/99) dice esplicitamente: “Il Messale Romano approvato e promulgato per autorità del Papa Paolo VI…è l’unica forma in vigore di celebrazione del Santo Sacrificio secondo il Rito Romano, in virtù dell’unico diritto liturgico generale“.

2    Già 25 anni fa, quando un monaco inglese scriveva al Cardinale Siri di Genova, chiedendogli come si dovesse comportare in campo liturgico nel dubbio tra vecchio e nuovo rito, egli rispondeva: “Il potere col quale Pio V ha fissato la sua riforma liturgica è lo stesso potere di Paolo VI. L’aver riformato l’Ordo implica la sua sostituzione all’antico.” (lettera del 6/9/1982).

3    Aureli Augustini, De ord. II, 26. “Per imparare dobbiamo avere due guide: l’autorità e la ragione. L’autorità ha un primato temporale, la ragione un primato sostanziale”.

4    Si può fare un solo esempio: se iniziare la messa “senza il popolo” oppure ” quando il popolo si è radunato” è indifferente per la teologia eucaristica, ciò significa, nella sostanza, che l’azione liturgica non ha nulla da dire alla teologia del sacramento, e che la teologia è sostanzialmente autonoma rispetto alla liturgia.

5    Cfr. Autour de la question liturgique. Avec le Cardinal Ratzinger, Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, Association Petrus a Stella, Fontgombault, 2001.

6    La paradossale lettura che Girard propone del provvedimento papale giunge al suo culmine quando ne sintetizza così il pensiero: “Se si fanno delle regole assolute si può star certi che si verificherà un conflitto. Se invece non si impone una normativa rigida, non ci saranno scontri perché non ci saranno discussioni: semplicemente non ne parlerà nessuno. La Messa è una di quelle materie che non dovrebbero essere oggetto di regolamenti amministrativi”! E’ evidente che Benedetto XVI si trovi comunque a una certa distanza da queste conclusioni.

7    A. Angenendt, Liturgia e storia. Lo sviluppo organico in questione, Assisi, Cittadella, 2005, 239.

8    M. Blondel, Storia e dogma. Le lacune filosofiche dell’esegesi moderna, Brescia, Queriniana, 1992, 119. 

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