Sul sacrificio e sul segno, senza esagerare. Spunti per una intesa cattolico-protestante


 imagesecumene

Mi lascerei incenerire piuttosto che ammettere che uno che dice messa sia con la sua opera uguale o superiore al mio Salvatore Gesù Cristo. Dunque siamo e restiamo eternamente divisi e contrapposti” M. Luther

Entrambe le forme del culto, quella liturgica e quella spirituale, sono cooriginarie” E. Jüngel

Partire dal significato per arrivare al segno è la logica dei musei, e di quel tanto di imbalsamato che non può non esserci in ogni umana teologia. Passare dal segno al significato è la logica della vita e di quel minimo di vitalità che non può non esserci in ogni fede cristiana. La “seconda svolta antropologica”1 ha il merito di contribuire oggi a riportare al centro della attenzione questo banalissimo fatto: che “nessuno nasce imparato” – come dice un proverbio napoletano – e che se la liturgia ha un senso è anche quello di “insegnarci” – originalmente e originariamente – che cosa è la vita in Cristo.

Il grande guadagno della “prima svolta antropologica” è stato quello di scoprire che il segno di per sé non può valere come significato. Deve esserci una ulteriorità del segno perché il segno resti tale. Questa ammissione – pur nella sua inattaccabile urgenza- ha però indotto a pensare che la ulteriorità rispetto al segno possa poi comunicarsi indipendentemente dal segno. Che questa risulti invece una impossibilità è la grande novità rappresentata dalla “seconda” svolta altropologica, inevitabilmente legata alla esperienza simbolico-corporeo-sacramentale su cui poggia la fede cristiana.

In tale ambito la questione sulla differenza tra sacrificio rituale e sacrificio spirituale, come tra messa e croce, ha subito una vicenda esemplare. Dapprima si è trattato di una distinzione all’interno di una relazione, poi di una opposizione tra spirituale e rituale, fino a giungere ad una ricomprensione della priorità, del primato “significativo” della interiorità e di un primato “segnico” della ritualità.

Vorrei fare a tal proposito un rapido e significativo riferimento ad un padre venerato e insuperato della prima svolta antropologica.

In effetti, per poter dire nel mondo moderno una famosa espressione di Agostino (“Ipse homo…in quantum mundo moritur ut Deo vivat, sacrificium est”2), occorre fare molta attenzione: bisogna avere una spiccata sensibilità per i dettagli, una acuta percezione delle sinuose imprevedibilità del mondo, e adeguarvi sapientemente una sempre necessaria teoria della fede.

Lo stile della prima svolta antropologica ha teso a guardare al significante a partire dal significato, all’immediatezza a partire dalla (e in ragione della) mediazione. Come ha detto con eleganza H. De Lubac:

“Chi dice sacramento, dice passaggio. Pur restando indispensabile nella nostra condizione terrestre, l’ordine sacramentale è fatto per condurre sempre oltre l’immediato. Il significante non esiste mai se non in vista del ‘significato più profondo’, e mai l’esprime in modo adeguato.”3

Questa gustosa affermazione, così ricca di una sapienza lungimirante, equivale alla lucida consapevolezza del regime transitivo (e transitorio) dei riti, del loro strutturale “stare per altro”.

Ma viene un tempo – ed è questo nostro tempo – in cui, per garantire la possibilità di fare ancora quello stesso passaggio, occorre tornare a capire anche i diritti dell’immediatezza, del significante per arrivare al significato, del desiderio per arrivare al dono. In fin dei conti, resta sempre vero che

“C’è un tempo per sostenere una tesi e un tempo per mettere in valore la tesi complementare. Ancor più spesso bisognerà sostenere l’una e l’altra nello stesso tempo”4

Così, sulla base di questa duplice consapevolezza riformulerei la frase del grande teologo, ma con le priorità capovolte, come a noi oggi pare decisamente necessario per riguadagnare un rapporto corretto anche con il sacrificio rituale:

“Chi dice passaggio, dice sacramento. Pur essendo fatto per condurre sempre oltre l’immediato, l’ordine sacramentale resta un immediato della nostra condizione terrestre. Il significato più profondo non esiste mai se non grazie ad un significante, sebbene questo non lo esprima mai adeguatamente”.

Verosimilmente così parlerebbe oggi anche il padre De Lubac.

Allo stesso modo Lutero diceva, negli Articoli di Smalcalda:

“Mi lascerei incenerire piuttosto che ammettere che uno che dice messa sia con la sua opera uguale o superiore al mio Savatore Gesù Cristo. Dunque siamo e restiamo eternamente divisi e contrapposti”

Mentre oggi credo che un Lutero contemporaneo potrebbe dire, senza contraddizione con se stesso:

“Mi lascerei incenerire piuttosto che ammettere che uno che dice messa sia con la sua azione simbolico-rituale in concorrenza o superiore al mio Salvatore Gesù Cristo. Dunque siamo e restiamo in una fondamentale comunione ecclesiale, nonostante tutto”.

La “finzione” di questo Lutero contemporaneo esprime forse efficacemente l’obiettivo segreto di quel dialogo ecumenico che oggi sconta la necessità di un grande rinnovamento di stile, affidando molte speranze alla riscoperta del primato dell’eucaristia celebrata sull’eucaristia definita e saputa: quasi il necessario recupero del primato della forma rituale come orizzonte della forma verbale entro cui brilla la essenzialità della formula, che non può più vantare alcuna autosufficienza rispetto al contesto. Verso questo obiettivo sono in cammino tanto la tradizione cattolica quanto quella evangelica: e non è affatto detto che, lungo la strada, non possano diventare buone compagne, o forse addirittura amiche del cuore.

1     Per un chiarimento generale di questa categoria cfr. A Grillo, Il rinnovamento liturgico tra prima e seconda svolta antropologica. Il presupposto rituale nell’epoca del postmoderno, (Quaderni della Rivista di Scienze Religiose, 2), Roma-Monopoli, Edizioni Vivere In, 2004.

2     Augustinus, De civitate Dei, X, 5-6.

3     H. De Lubac, Pico della Mirandola. L’alba incompiuta del rinascimento, Milano, Jaca Book, 1994(2), 419s.

4     H. De Lubac, Paradossi e Nuovi Paradossi, Milano, Jaca Book, 1989, p.20.

Share