Sinodo, censura e vigilanza episcopale



In un certo modo pare quasi provvidenziale che nel corso della parte finale del cammino che porterà
il Sinodo dei Vescovi al doppio appuntamente sinodale dell’ottobre 2023 e 2024, si sia manifestata,
improvvisamente, una crisi di consenso, con il mancato “nihil obstat” alla promozione a Preside del
prof. di teologia morale Martin Lintner. Questo mette in luce almeno tre questioni vitali, che vorrei
qui brevemente richiamare.


a) C’è sinodo e sinodo


La parola “sinodo”, in quanto tale, non garantisce nulla. Abbiamo avuto lunghi secoli in cui,
essendo il sinodo uno degli strumenti con cui i Vescovi esercitavano la loro potestas iurisdictionis,
intesa come potere di governo e potere dottrinale, una delle incombenze dei sinodi diocesani
consisteva nell’aggiornamento dell’indice dei libri proibiti. I sinodi erano uno dei luoghi della
“censura”, che era considerata, nel mondo moderno, il modo più diretto e più efficace per garantire
il consenso. Tutti gli stati avevano il loro “Sant’Uffizio”, che aveva un riscontro anche a livello
locale. Il fatto che il sinodo, oggi, possa essere una esperienza diversa di “consenso ecclesiale”
deriva dalla fine di quel sistema di controllo e di sanzione, tipico della società tradizionale. E’
saltato all’occhio il contrasto tra la forma “sinodale” che oggi auspichiamo, per raggiungere un
consenso più efficace, e la forma classica con cui una congregazione ha operato un sindacato
dottrinale, senza confronto ecclesiale, escludendo dalla nomina un professore per aver scritto in
modo critico su assunti dottrinali ritenuti incontestabili. Costruire la possibilità di un sinodo diverso
è nelle mani di un cammino ecclesiale non scontato.


b) La censura e il consenso


Il secondo punto su cui dovremmo riflettere è precisamente la riforma del modo con cui Roma,
anche dopo il Concilio Vaticano II, continua a sperare di “garantire la ortodossia”. Qui da tempo si
fa notare che la struttura e la organizzazione della Congregazione per la dottrina della fede
corrisponde ad un modo di pensare il rapporto con la verità che non ha più alcun riscontro nella
cultura comune. Non è la censura il metodo che garantisca la verità, ma il dialogo argomentato e
accurato. Una discussione comune su temi su cui vi sono pareri divergenti non può essere risolta
come 500 o 200 anni fa. Poiché non si tratta semplicemente di “custodire una dottrina”, ma di
leggerne nuove possibili implicazioni all’interno di una cultura in cui i soggetti e gli stessi temi non
sono più gli stessi. Parlare di “donna” o di “omosessualità” o di “crisi ecologica” nel nostro tempo
esige un dialogo profondo con la cultura ambiente, senza il quale la Chiesa può anche arrivare a
pensare di pronunciare “affermazioni definitive”, ma non ha istruito la causa in modo adeguato e
batte l’acqua nel mortaio. Può fare paura a qualcuno, ma non annuncia il Vangelo. Recuperare la
relazione complessa con la Parola di Dio e con la esperienza umana è una condizione inaggirabile
per custodire una dottrina cristiana in modo efficace.


c) La vigilanza è una virtù cristiana


Anche la dottrina ha bisogno di vigilanza. I sinodi che nel passato aggiornavano l’indice dei libri
proibiti, i concili che condannavano proposizioni erronee o i Santi Uffizi che indagavano opere e
pensieri di autori interpretavano la vigilanza in modo molto serio, ma anche molto unilaterale.
Come se vigilare, anche per la Chiesa, significasse anzitutto temere che un ladro possa derubare la
Chiesa dei suoi tesori. La vigilanza cristiana non è anzitutto questo. Vigilare significa attendere
il Signore, che arriva come un ladro: perché la verità appare anche nel futuro, negli angoli meno attesi, dai soggetti più sconosciuti. Una delle qualità fondamentali dell’episcopato è proprio
l’esercizio di questa vigilanza. Per questa riscoperta di una vigilanza positiva, aperta e piena di
speranza, il ripensamento che il Concilio Vaticano II ha propiziato, oggi prende la forma di un
“cammino sinodale” in cui il consenso non è più generato dallo scontro un po’ clandestino tra
censore e censurato, bensì dal dialogo aperto e sincero tra componenti ecclesiali diverse, ma non
opposte, in ordine ad una sintesi più accurata e più autentica. Sui temi classici, come la misericordia
o la liturgia, ma anche sui temi “nuovi”, come la autorità della donna o la pluralità delle forme di
relazione stabile e di famiglia, occorre una sintesi nuova. Una più evangelica vigilanza è la
condizione per non cadere nella trappola di identificare la Chiesa con le forme di amministrazione e
di governo che scaturivano da una cultura e da una società che non è più la nostra.

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