Rovelli, la fede e il principio del piacere


Da tempo circola in rete una “dichiarazione” con cui Carlo Rovelli, fisico di chiara fama, difende il proprio ateismo con una serie di “mi piacciono” e “non mi piacciono”. (si può leggere il testo qui)

Una tradizione che demonizza il principio del piacere può e deve essere corretta da una nuova considerazione del piacere. Ma la identificazione del bene con “ciò che piace” non contesta soltanto le tradizioni religiose, ma le differenze culturali tra vegetale, animale e umano. Un rapporto diretto col bene, nell’uomo, non si dà mai immediatamente. Sulle mediazioni non ce la caviamo mai solo con una disputa de gustibus. Non per essere superbi, o sentirsi superiori, ma per rispettare il fenomeno. Diciamo per scrupolo scientifico. Non la fede, ma la complessità del reale umano e morale, ci obbliga a non fermarci al principio del piacere. Provo a formulare una sorta di “contrappunto” al testo di Rovelli, non solo per dire cose diverse, ma per valorizzare, per quanto possibile, uno stile e un modo diverso di porre la medesima questione.

Ciò che mi piace non è detto che sia il mio bene. Ciò che non mi piace non è detto che sia il mio male. Questo è il grande mistero della natura degli uomini e delle donne: di non essere immediatamente se stessi. E di trovare se stessi nel cammino di una esistenza esposta all’incomprensibile mistero della libertà e della grazia. Come un albero e come un cane, viviamo, sentiamo e soffriamo. Ma a differenza dell’albero e del cane non siamo già noi stessi, ma cerchiamo noi stessi nel cammino della esistenza, di fronte agli altri e grazie agli altri, di fronte a Dio e grazie a Dio: in questa differenza tra realtà e compito sta la libertà e il peccato. Agire solo in base al bene è il nostro ideale, ma questo bene non si presenta sempre come “ciò che ci piace”. Ci sono beni che hanno un “piacere differito” e che nell’immediato non ci sembrano affatto il nostro bene. Questo è il regno della “tradizione”: il regno di beni che non sono autoevidenti. La fede non è un immediato “sistema di controllo”, ma una tradizione della “perdita di controllo”. E’ riconoscere il mistero della grazia e della libertà, che parla in ogni cosa, nella foglia come nelle stelle. Cercare il bene per paura di una sanzione non è tipico della fede, anche se la forma umana della vita è strutturata anche di sanzioni. Tuttavia uscire dalla “paura del male” come via al bene, non è così semplice. L’ideale di “compiere il bene per amore del bene”, se vuole rimediare alla cattura di uno slogan, deve assumere forme concrete: la “gratuità” del rapporto col bene non può fare a meno di una nozione di “grazia” che va oltre se stessi. O un dovere o un essere sta oltre la immediata identità tra piacere e bene. Per questo il problema del “bene per il bene” affatica gli uomini da secoli.

Vi è poi un’altra dimensione da considerare: la preghiera, il culto e la liturgia, il “piacere a Dio” e il “rendergli grazie” e “gustare il silenzio”. E’ giusto dispiacersi di un mutismo magico che paralizza le nostre funzioni. Ma non è questo che piace a Dio. Incontrarsi nella lode e nel rendere grazie, guardando i volti e gustando il mistero della parola e del silenzio, del canto e del movimento, è precisamente ciò che la tradizione, che custodisce le cose non evidenti, ci ha consegnato nei secoli. Non funzioni anonime, ma luoghi di comunione appassionata, che parla anzitutto ai sensi e al tatto, per illuminare la volontà e confortare l’intelletto. Dio non spiega il reale e non emana leggi morali. Distinguere tra il bene e il male è precisamente il centro di un equivoco: la pretesa di distinguere immediatamente è peccato, non virtù. La virtù è accettare la relazione come luogo dell’apertura alla morale distinzione tra giusto e ingiusto: che è diversa sia dalla distinzione tra piacere e dispiacere, sia dalla distinzione tra utile e dannoso. Nel rapporto con Dio e con il prossimo (che non si può racchiudere in nessuna parola e in nessuna azione) ogni uomo e ogni donna trova la via, non predeterminata, verso il bene. Credere è, appunto, restare in questo rapporto, di cui nessuno ha il monopolio. Seguire Gesù, per dirla con semplicità, consiste in questa umile accettazione della finitezza, di bisogno dell’altro, verso la felicità che è “parola piena di mistero” (fede), “cammino verso il non visibile” (speranza) e “amore senza misura” (carità).

Speranza è il contrario della disperazione, certo, ma anche il contrario della presunzione. Lo stereotipo del credente come del presuntuoso che sa tutto sull’universo, fa il bene solo per evitare il male, partecipa passivamente a funzioni senza senso, detta legge sul mondo naturale o morale, è la caricatura della fede. Una caricatura fortunata, che piace, ma che la fede autentica guarda con estrema preoccupazione. Le ragioni del credere sono più forti della giusta critica alla caricatura della fede. La rivelazione del mistero non è “spiegazione scientifica” delle cose, ma esperienza più intensa del mistero e della radicale incomprensibilità delle cose, che si apre alla luce solo nella relazione personale col prossimo e con Dio, senza monopoli e senza presunzione, ma con affidamento e con speranza. Per non ridurre il rapporto col mondo al mi piace o non mi piace, sapendo che la mediazione dei sensi è inaggirabile, ma non è mai ultimo criterio: non lo è per la fede, ma neppure per la scienza, se non erro.

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