Resistenza al contagio civile senza resa alla nostalgia ecclesiale


crocecavalca

Non solo all’inizio di questa epidemia, ma anche oggi, 10 marzo, dopo i provvedimenti eccezionali assunti ieri sera, si sentono voci ecclesiali lamentare una scarsa autorità, una mancanza di coraggio e una posizione “defilata” e “passiva” della Chiesa cattolica rispetto al virus che dilaga. Una riflessione pacata dovrebbe suggerire di non perdere mai il senso della realtà e di contestualizzare le parole proprio in questa nostra condizione attuale. Voglio considerare due voci che interpretano, in qualche modo esemplarmente, questa protesta.

Da un lato vorrei citare il testo pubblicato da Giulio Meiattini, (La paura che uccide e il coraggio che manca), dall’altro vorrei rifarmi alle riflessioni di Massimo Introvigne (“La Chiesa debole al tempo del contagio”, sul Mattino di Napoli). Mi colpisce come, in due letture tra loro assai diverse, il dato comune sia una critica più o meno forte alla “irrilevanza ecclesiale” e un sorta di “idealizzazione” delle passate epidemie. Vorrei quasi sottolineare – ma già si era notato nei testi precedenti di Riccardi e di Cardini – la tendenza a rievocare prassi ecclesiali e forme di resistenza celebrativa del passato, rispetto a cui la Chiesa di oggi non risulterebbe alla altezza.

Io trovo che in questi giudizi, che cercano argomentazioni e che allegano esempi, il “luogo comune” sia una sorta di resistenza ad oltranza contro la modernità. Come se fosse scontato che la Chiesa cattolica possa avere un futuro solo nella misura in cui mantiene una rilevanza “in contrasto” con lo spirito del tempo. Come se i “nostri tempi” non avessero nulla da insegnarci e solo dal passato potessimo imparare che cosa è una epidemia, come la si combatte e con quale stile ecclesiale ed episcopale la si affronta.

L’ argomento debole (e nostalgico) della paura

Esamino anzitutto alcuni passi del testo di Meiattini. Egli lamenta una mancanza di coraggio a livello di cultura civile. Egli scrive:

“In realtà, si ha troppa paura di morire, o anche solo di star un po’ male. E in questo momento la paura è spropositata rispetto alla minaccia in atto. E perché? Il motivo forse più profondo, o uno dei principali, penso sia una mancanza di prospettiva futura. Pensiamo un attimo a chi ha fatto l’unità d’Italia o chi ha combattuto in vario modo nella resistenza durante l’ultima guerra mondiale, a chi ha combattuto le guerre americane di indipendenza e persino per chi ha fatto la rivoluzione russa. Per costoro, la patria o la libertà valevano più della vita, perché il futuro era un bene superiore al presente, si pensava alle generazioni future (agendo realmente da adulti-genitori) dando la vita per un avvenire che si sarebbe realizzato. C’era comunque una qualche fede in un futuro (in certi casi anche ideologico o utopico) per il quale comunque valeva anche la pena morire. Analogamente, il credente che preferisce rischiare la vita e perderla, piuttosto che rinnegare la sua fede, ha davanti a sé il futuro eterno, oltremondano, il paradiso.”

La epidemia, paragonata alle “guerre di liberazione” o al “martirio per fede”, sembra un paragone per lo meno azzardato. Le logiche del “presidio sanitario” sono, effettivamente, sconosciute al passato, almeno nelle forme con cui oggi possono essere organizzate. La battaglia ideale per la libertà e per la fede come può essere paragonata alla salvaguardia della salute pubblica? Per quale “ideale” si dovrebbe morire? Per affermare la debolezza dell’uomo e la maestà di Dio? Sarebbe questo “uso apologetico della epidemia” a giustificare la posizione “resistente” della Chiesa? Ma l’analisi procede ancora avanti e arriva ad identificare nella “relativizzazione della vita” la forma più vera di identità culturale:

“Lì dove non c’è qualcosa di più alto e di più prezioso del presente adolescenziale non determinato, dove cioè non esiste un senso ultimo della storia e della vita a cui approdare (neppure l’età adulta dell’illuminismo) e che possa dare ragione della perdita parziale o totale del presente, se non esiste, cioè, qualcosa che valga più della vita, per cui valga la pena anche morire (non come fuga dalla sofferenza, ma come coraggio della convinzione) la vita si spegne, perché la paura uccide più della spada e più dei virus”. 

Quindi noi abiteremmo oggi una società “della paura”, in cui la Chiesa si accoda al “pensiero unico” e perde la sua identità insieme con la società civile. Ed è evidente che, in questo ragionamento, la nostalgia si sposta addirittura sulle “forme della epidemia”, che oggi non sono paragonabili a quelle del passato:

“L’epidemia in atto, se così può essere chiamata a confronto con le vere e grandi epidemie di peste, vaiolo, colera, che nei secoli passati decimavano la popolazione, in questo momento attinge tutta la sua forza, non dal numero delle vittime o dalla sua obiettiva pericolosità, ma dalla debolezza spirituale dell’umanità, che è aggrappata al suo presente e non vuol perdere nulla, non vuol cedere niente e vuole perpetuarsi crescendo in modo indefinito.” 

Sembra dire, l’autore, in questo empito nostalgico: “non ci sono più le epidemie di una volta!” Ed è curioso che non si chieda minimamente perché mai oggi le epidemie siano così diverse da prima e se, per caso, in questa differenza ci abbia messo lo zampino proprio quell’uomo infantile, narcisista e falso di cui Meiattini ci parla lungo tutte le sue pagine. Non stupisce che, in conclusione, riferendosi alla Chiesa, il tono si faccia ancora più duro, secco e ingiusto, fino ad affermare:

“La stessa Chiesa (o meglio gli uomini di Chiesa) hanno dimenticato che la grazia di Dio vale più della vita presente. Per questo si chiudono le chiese e ci si allinea ai criteri sanitari e igenici. La chiesa trasformata in agenzia sanitaria, invece che in luogo di salvezza.” 

La incomprensione del fenomeno nella sua reale entità, la pretesa di giudicarlo “in contumacia” e il finale giudizio senza appello contro una Chiesa “appiattita sulla emergenza sanitaria” sono una specie di concentrato antimodernistico, spremuto senza la dovuta considerazione di ciò che accade agli uomini e alle donne, la cui esistenza è ridotta a quantité négligeable. Ma la sanità e la Chiesa non sono più quelle di 400 anni fa, se Dio vuole. Mentre la cifra più preoccupante è una sorta di “nostalgia inerziale”, che travolge tutto e dimentica i presupposti del mondo che abitiamo, da cittadini e da cristiani. E può permettersi di confondere la difesa della salute pubblica col narcisismo dell’individuo. Qui, mi pare, la grande tradizione ecclesiale viene incompresa e ridotta ad una caricatura che la rende quasi irriconoscibile.  Con la scusa del “non aver paura”, mi pare che si attesti in modo macroscopico una tremenda paura verso tutto ciò che di buono e di forte il mondo moderno – che non è il paradiso – ha pur sempre saputo costruire.

Il timore della irrilevanza e la storia moderna

Diverso è l’approccio di Introvigne. Con ampio ricorso al suo ben noto understatement, egli delinea un bel ragionamento sulla eccezionalità della condizione in cui la Chiesa italiana è venuta a trovarsi nelle ultime settimane. Egli si pone da un punto di vista che direi istituzionale, ponendo la questione decisiva della “autorità”. E si chiede come mai, mentre in passato i grandi Vescovi, in occasione delle epidemie di peste o di colera, godevano di così alta autorità, oggi invece restano molto silenziosi e si adeguano con grande velocità alle decisioni assunte in campo civile?

Certo Introvigne non ha bisogno che gli si ricordi quanto paradossale sia la sua domanda. Infatti, quando egli rammenta come nel passato le Chiese incidessero profondamente anche nelle decisioni in materia sanitaria, non può dimenticare che in quel passato non vi era nulla di simile a ciò che oggi chiamiamo “ministero della salute”. Neppure esisteva una scienza medica, allora. E’ troppo facile mettere a paragone i Vescovi di allora con quelli di oggi senza tener conto della evoluzione istituzionale, amministrativa e sanitaria che in 4 secoli si è determinata. Io oggi sono ben felice che la mia salute fisica, corporea, ambientale, sia determinata da una autorità civile competente e preparata, e non dal mio Vescovo. Ma questa “secolarizzazione” non la guardo con alcuna nostalgia. Anzi, non la chiamerei nemmeno secolarizzazione. Già questo nome segnala, sotto sotto, il fatto che non si riesca – o che non si voglia – legittimarla del tutto proprio perché la chiamo così. Come diceva Cardini, in modo ingenuo, da quando ci sono gli epidemiologi, abbiamo perso la fede…

Introvigne, successivamente, ma nell’ambito dello stesso approccio, arriva alla conclusione: “la Chiesa dovrebbe temere la irrilevanza” – più che la accusa di irresponsabilità. Qui la questione è seria, ma deve essere intesa in modo corretto. In questa contingenza, la “rilevanza” della Chiesa non può essere pensata con il metro della “concorrenza allo Stato”. Nel fondo Introvigne sembra continuare a pensarla così, anch’egli con uno schema che resta, nel fondo, antimodernistico. Secondo questo schema, se in materia di sanità la Chiesa accetta le direttive statali, perde autorità. Io sono convinto del contrario. Che la Chiesa perderebbe autorità proprio se volesse “far da sé”. Il “bene comune”, qui, è reale, non ideologico o strumentale. Che possa essere “guida morale del paese” non dipende dal fatto che voglia “aprire ciò che è chiuso” e “avvicinare ciò che è distanziato”. Il suo magistero spirituale non vive anzitutto di contrapposizione, ma di integrazione. Questa è la grande intuizione conciliare che oggi ci mette tutti alla prova. Non ci dà ancora tutte le risorse di cui abbiamo bisogno. Ma sicuramente esclude quelle soluzioni “classiche”, con cui faremmo danni peggiori, a noi stessi e agli altri.

Né paura, né debolezza, ma vigilanza per il bene comune

La parola con cui la Chiesa ha accompagnato questa crisi non è sintomo né di paura, né di debolezza. Direi, piuttosto, indica la giusta direzione di una “vigilanza” che ha di mira il “bene comune”. Ovviamente alla Chiesa non si addice soltanto il “linguaggio canonico”, pur così importante. Proprio la possibilità di ricorrere ad altri linguaggi, diversi dalla “formalità istituzionale” e dalla “devozione individuale”, costituisce oggi la vera sfida. Una sfida grande, e difficile, che però sa di non dover guardare nostalgicamente ad un passato separato, ma di dover mirare responsabilmente ad un futuro comune.  E possiamo e vogliamo ancora cantare “O Dio vieni a salvarmi, Signore vieni presto in mio aiuto”, senza doverci per questo vergognare di avere il libretto sanitario.

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