Nuove interpretazioni del Giubileo: in dialogo con Carlo Molari


Rembrandt_Harmensz_particolare_450

In un intervento sulla Rivista “Rocca”, Carlo Molari entra in rapporto diretto e puntuale con quanto scritto, anche su questo blog, negli ultimi mesi. Mi sembra una ottima occasione di confronto e di approfondimento, per meglio “tradurre” la tradizione. Riprendo la parte iniziale del contributo di C. Molari.

Giubileo e nuovi modelli interpretativi

di Carlo Molari in “Rocca” n. 4 del 15 febbraio 2016

Nel cammino della Chiesa vi sono momenti durante i quali modelli interpretativi dell’esperienza di fede utilizzati nel passato resistono solo in forza della tradizione ma non sono più significativi. Per vivere correttamente l’esperienza ecclesiale si avverte la necessità di nuovi modelli. D’altra parte il rapporto tra pratica e interpretazione è circolare come in tutti i processi complessi. L’attività modifica il soggetto operante e lo stimola a sviluppare nuove interpretazioni. Anche l’indizione dell’anno giubilare centrato sul tema della Misericordia da parte di Papa Francesco ha messo in luce la carenza nei modelli interpretativi della pratica penitenziale e dell’esperienza salvifica e ha messo in moto un nuovo processo interpretativo. Di fronte a questa situazione alcuni hanno reagito con disagio avvertendo una incongruenza con i modelli precedenti e per questo hanno criticato in vari modi il Papa. Altri hanno ripetuto la dottrina tradizionale senza rilevarne le incongruenze, altri infine stanno proponendo nuovi modelli. Credo sia opportuno evidenziare e seguire da vicino questi tentativi per allargare il confronto e diffondere maggiore consapevolezza nella pratica ecclesiale. Mons. Alceste Catella (Vescovo di Casale Monferrato) e il teologo Andrea Grillo in occasione del giubileo di inizio millennio avevano pubblicato il libro: Indulgenza. Storia e significato (San Paolo Edizioni, 1999). Lo scorso anno ne hanno preparato una nuova edizione con l’introduzione apparsa anche nel Blog di Andrea Grillo (http://www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non/), il 12 ottobre. Per loro il profilo inedito che le indulgenze possono promuovere consiste nel «far gustare all’uomo di oggi la profondità e la delicatezza della sua libertà (in quella comunione con i fratelli che la Chiesa riceve dall’alto e che per questo può annunciare e realizzare)… Purché la Chiesa sappia trovare le parole giuste per disgelarne quel senso che essa anzitutto riceve in dono e che poi può e deve a sua volta annunciare e donare, anche e soprattutto all’umanità di oggi». Nello stesso blog il 23 gennaio u. s. lo stesso Grillo ha ripreso il discorso in un vivace e puntuale confronto tra la terminologia ecclesiale e quella civile: Assoluzione e pena, in confessionale e in tribunale. Equivoci e sorprese sulla indulgenza. Giustamente il teologo afferma: «Il confessionale ‘non è un tribunale’, e il confessore non ha il compito di ‘giudicare’ e ‘condannare’, ma di ‘annunciare il Vangelo’ e di ‘assolvere’». Ricercando poi le ragioni della contrapposizione si è richiamato all’«evoluzione del ‘linguaggio giuridico’ – a partire almeno da ‘Dei delitti e delle pene’ [1764] di Cesare Beccaria [1738-1794]» e allo sviluppo del diritto penale «che interferisce potentemente sul linguaggio ecclesiale, creando facilmente tanti ‘falsi amici’ e, di conseguenza, altrettanti equivoci». A proposito della Bolla di Francesco egli opportunamente osserva che «la indulgenza riguarda la liberazione del ‘peccatore perdonato’ dai ‘residui delle conseguenze del peccato’» e che «se da una parte Dio non si stanca mai di perdonare, d’altra parte noi possiamo serenamente perseverare nel confidare che la grazia di misericordia possa prendere sul serio e valorizzare fino in fondo la libertà con cui rispondiamo al perdono divino nel ‘lavoro’ della conversione e nella testimonianza di un perdono gratuitamente ricevuto e perciò prontamente e umanamente rielaborato». In conclusione Grillo propone di interpretare la pratica giubilare come la «riscoperta della proporzione laboriosa della penitenza, come risposta umana alla esperienza del sorprendente dono di grazia che Dio riserva a ogni uomo e ad ogni donna seriamente intenzionati a vivere di comunione. Siamo di fronte a un caso classico di ‘traduzione della tradizione’. ‘Ciò che non muore e ciò che può morire’: due componenti delle indulgenze si intrecciano strettamente e richiedono pertanto nuovo discernimento, non solo al vertice, ma anche alla base della Chiesa» (ib.).

Ragioni teologiche del disagio

La formula tradizionale che anche oggi molti hanno ripreso dal Catechismo della chiesa cattolica è quella di presentare l’indulgenza come «condono della pena temporale del peccato già rimesso quanto alla colpa e alla pena eterna» (Ccc 1471-1479). Ancora Giovanni Paolo II l’aveva utilizzata nella Bolla di indizione dell’anno santo del 2000 (Incarnationis mysterium 29 novembre 1998) dove scriveva: «Fin dall’antichità… la Chiesa è sempre stata profondamente convinta che il perdono, concesso gratuitamente da Dio, implica come conseguenza un reale cambiamento di vita, una progressiva eliminazione del male interiore, un rinnovamento della propria esistenza. L’atto sacramentale doveva essere unito ad un atto esistenziale, con una reale purificazione della colpa, che appunto si chiama penitenza. Perdono non significa che questo processo esistenziale divenga superfluo, ma piuttosto che esso riceve un senso, che viene accettato, accolto. L’avvenuta riconciliazione con Dio, infatti, non esclude la permanenza di alcune conseguenze del peccato dalle quali è necessario purificarsi. E precisamente in questo ambito che acquista rilievo l’indulgenza, mediante la quale viene espresso il ‘dono totale della misericordia di Dio’ [cita in nota Id. Bolla Aperite portas Redemptori (6 gennaio 1983), 8: AAS 75 (1983), 98] Con l’indulgenza al peccatore pentito è condonata la pena temporale per i peccati già rimessi quanto alla colpa» (n. 9). Questa argomentazione è chiaramente contradditoria. Da chi sono inflitte le pene se il nome di Dio è misericordia? Perché Dio non condona fin dall’inizio la pena temporale, ma ha bisogno di un’ulteriore azione condizionata ad una pratica della creatura? Perché la misericordia non può essere integrale fin dall’inizio? Perché il suo primo perdono si limita alla colpa e alla pena eterna? residuo dell’impianto giuridico La ragione di questa contraddizione è un residuo dell’impianto giuridico che nei secoli aveva costruito l’interpretazione della redenzione realizzata da Cristo come soddisfazione offerta a Dio…

Share