L’orientamento nel rito romano (di Z. Carra)


Dopo il mio post, nel quale riprendevo una relazione sul tema dell’orientamento della eucaristia nel rito siro-malabarese (che si può leggere qui), il collega e amico Z. Carra mi ha spedito questa riflessione, che pubblico volentieri. Essa tocca un tema su cui è bene costruire un “sapere fondato” che sia non solo teorico, ma anche pratico. Lo ringrazio per aver rilanziato il dibattito.

Gentile professore,

RingraziandoLa per aver lanciato sul Suo blog un tema molto interessante, mi permetto di raccogliere la palla e rilanciare alcune considerazioni sparse. Queste restano interne al rito romano e non pretendono di entrare nella questione del rito siro-malabarese per cui Ella ha dettato la conferenza.

1. Un’analisi della questione che verta solo sull’alternativa ad altar / ad populum è a mio avviso riduttiva. Il nesso tra direzione della preghiera, posizione del presidente all’altare e posizione dell’assemblea deve tener conto di altri fattori, come quello dell’esistenza o meno della separazione di spazi determinata dal presbiterio come zona rialzata rispetto alla zona dell’assemblea.

Nella logica del rito pre-riformato essa ha un senso come delimitazione di un’area sacrale dove si compie il sacrificio e di un’area antistante in cui sono raccolti in assistenza coloro per i quali si compie il sacrificio. Il superamento di questa distinzione – apporto centrale ecclesiologico dell’istanza di SC della actuosa participatio – esige di valutare la sensatezza del permanere di due aree separate, prima e più che la questione della posizione dell’altare rispetto ai soggetti celebranti.

All’interno di tale questione si determina anche la forma con cui i soggetti sono disposti in relazione all’altare. Attualmente la maggior parte delle chiese italiane (nuove o riadattate) hanno conservato la disposizione ottocentesca dei banchi in fila verso il presbiterio; posizione che nella forma celebrativa precedente dava il dinamismo di una processione verso una soglia (l’altare) tra due mondi. Ora, mantenuta la forma dell’assemblea, ma variata la forma del polo in direzione della quale essa è disposta, l’impressione è spesso quella di aver riprodotto la dinamica di un’aula da conferenze o di un teatro moderno, dove degli attori su di un palco compiono qualcosa in direzione degli spettatori allineati in platea1. In questa impostazione della celebrazione ad populum la disposizione del presidente e dell’assemblea rispetto all’altare non fomenta affatto l’istanza della participatio e la sensazione dell’actio communis, ma scava un fossato altrettanto pesante di quello, di altro genere, scavato dalla balaustra.

Laddove (in edifici nuovi) si elimini la separazione presbiterio-assemblea la posizione dell’altare si accresce di possibilità: quella ad esempio che consenta simultaneamente il circumstare dell’assemblea e del presidente attorno all’altare su tre lati; il mantenimento di un lato (ad orientem) libero per consentire la comune direzione “orientata” della preghiera, elemento che troppo spesso dimentichiamo e che – di tradizione antichissima2 – andrebbe maggiormente considerato. In tale collocazione dell’altare si modificherebbe necessariamente anche la disposizione dei seggi per l’assemblea, consentendo la forma del coro rispetto a quella della platea moderna. E si potrebbe ripensare la posizione della sede del celebrante, collocabile come corifeo tra gli altri fedeli “concelebranti” anziché come magistrato dinnanzi a loro…

2. Un’altra questione che credo vada sollevata è quella della necessaria distinzione tra istanze teologiche e realtà di fatto. Un conto è pensare e costruire una chiesa nuova, un conto è utilizzare con la forma celebrativa nuova uno spazio costruito con le esigenze della forma precedente. Si apre qui l’enorme tema dell’adattamento liturgico su cui i contenuti del Suo intervento non possono non misurarsi.

E fondamentale, a mio avviso, è la domanda: le istanze della nuova forma liturgica impongono la destrutturazione radicale degli spazi precedenti o possono essere declinate in adattamenti di tali spazi che risultino di essi rispettosi?

Nei primi decenni del postconcilio in molte diocesi si è optato per la prima soluzione: o con la demolizione degli spazi precedenti (spesso fortunatamente solo parziale, ovvero del solo complesso dell’altar maggiore) e la loro sostituzione con elementi nuovi, oppure con la giustapposizione dei nuovi arredi liturgici ai precedenti: altare nuovo (fisso o mobile), ambone e sede, davanti all’altare antico sullo stesso presbiterio, oppure giustapposizione di un nuovo presbiterio fuori dal precedente. Queste soluzioni hanno dato il risultato sperato? Le istanze della nuova forma vi sono adeguatamente realizzate? Laddove si sia rinnovato completamente il presbiterio, ma dentro una pianta longitudinale dell’edificio che ha imposto di tenere la separazione dall’assemblea e la forma plateale di quest’ultima, si ritorna alle questioni dette poc’anzi: in tali casi è realistico parlare di un circumstare dell’assemblea celebrante rispetto all’altare? E laddove si sono raddoppiati altare e/o intero presbiterio, e gli spazi liturgici si sono così artificiosamente divisi tra “ala abbandonata della casa” e “ala nuova” della stessa, abbiamo veramente fatto un servizio alle comunità che lì celebrano? Se l’unico altare è simbolo di Cristo, la presenza di due altari giustapposti e allineati è teologicamente sensata? Per non parlare del senso di disorientamento estetico (e l’aisthesis nella liturgia non è certo accidentale!) che si genera tra il convergere delle linee di forza dell’edificio sul vecchio polo e un’azione liturgica che si colloca altrove, “fuori asse”…

Non era / non è possibile realmente un adattamento che tenga conto della forma del reale (lo spazio, i prodotti dell’arte e della storia, etc.) e che ad essa contemperi le istanze della riforma? Le indicazioni vaticane sulla possibilità di utilizzare l’antico altare esistente3 vanno intese come espressione di retrivo conservatorismo (le disposizioni CEI degli stessi anni che vanno in altra direzione4 forse così le hanno capite?) o vi si può leggere un’attenzione rispettosa della realtà? Si può utilizzare in certi casi l’altar maggiore mettendo in atto una serie di attenzioni celebrative che lo connettano più efficacemente all’assemblea? Si possono utilizzare ad esempio le processioni tra la navata e l’altare; si può valutare una posizione della sede del presidente che faccia di questi il nesso tra l’assemblea e l’altare, superando la separatezza che la sua vecchia collocazione solo all’altare determinava …

Si inserirebbe qui anche la discussione sul polo della proclamazione della Scrittura, l’ambone: i vecchi pulpiti, ove siano in posizione accessibile allo sguardo e all’udito dell’assemblea non potevano / possono essere utilizzati come amboni?

Custodire gli spazi che le generazioni a noi precedenti hanno prodotto e rinnovarne l’utilizzo (ove sia ancora possibile), anziché azzerarli, in fondo salvaguarderebbe un’istanza basilare del cristianesimo che è il fare i conti con la realtà e la storia …

Sarebbe auspicabile, a mio avviso, che in questo genere di discussioni il piano delle istanze teologiche e quello delle effettive realizzazioni pratiche venisse adeguatamente distinto e si dicesse con un po’ più di coraggio che moltissimi dei nostri spazi liturgici sono un esperimento non del tutto riuscito; che quanto sul piano della teologia liturgica si era auspicato – salvo pochi felici casi – almeno nel panorama italiano non ha trovato realizzazione ottimale. In questi ultimi anni sono sorte chiese nuove che mostrano una ben più felice integrazione tra istanze e disposizione degli spazi, ma la maggior parte dei cattolici italiani celebra in chiese antiche riadattate o in chiese dei decenni del postconcilio costruite prima che il pensiero architettonico ed artistico in merito giungesse a stadio più maturo: su questi spazi e sulla effettiva attuazione della riforma liturgica in essi è urgente fare una verifica e – perché no? – qualche serio ripensamento.

Zeno Carra

1 «Nell’antichità cristiana, anche se il vescovo o il presbitero diceva da solo la preghiera eucaristica, tutti i cristiani, clero e laici, pregando con lui, nella medesima posizione, nella medesima direzione, rispondendogli al prefazio e alla conclusione, avevano perfettamente coscienza che quanto egli diceva era detto a nome di tutti. Non poteva venir loro in mente, e in effetti mai venne loro in mente, l’idea che egli si girasse verso di loro, o essi verso di lui, per poterlo vedere fare l’eucaristia. Tale idea sarebbe loro venuta solo molto tempo dopo, quando avrebbero smesso completamente di pensare che egli la celebrava non per loro, al loro posto, ma con loro»: L. Bouyer, Architettura e liturgia, Magnano 20072, 53.


2 Cf Basilio Magno, Sullo Spirito Santo 27,66,188B: SCh 17bis, 480.

3 Indicazioni raccolte e commentate in U. M. Lang, Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica, Siena 2006, 18-21.

4 Conferenza Episcopale Italiana, L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, 1996, nn. 16-17.

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