La sacramentalità come nuovo impedimento alla ordinazione? Le ferite aperte di una teologia nostalgica


Non vi è dubbio che tra i fenomeni più interessanti della teologia dell’ultimo secolo vi sia stata una grande rielaborazione del termine “sacramento”, che non solo è stato esteso a designare, oltre ai sette sacramenti, anche e anzitutto Cristo e la Chiesa (rispettivamente come “sacramento originario” e come “sacramento fondamentale), ma ha preteso di caratterizzare, in forma immediata, il cattolicesimo in quanto tale. Fino ad arrivare alla elaborazione di una nuova terminologia, che si struttura nella “difesa della sacramentalità” come cifra inconfondibile della tradizione cattolica, non solo rispetto al protestantesimo (liberale), ma anche rispetto alla cultura post-moderna. Entrambi questi filoni teologici e culturali, poiché negherebbero la sacramentalità, sarebbero incompatibili con il cattolicesimo: per questo ogni possibilità di dialogo e di incontro con essi sarebbe esclusa in partenza. In tal senso “sacramentalità” sarebbe la vera garanzia contro ogni forma di “modernismo”.

Questa tesi, che si trova affermata in modo drastico fin dalle prime pagine del libro di K.-H. Menke, Sacramentalità. Essenza e ferite del cattolicesimo (Brescia, Queriniana, 2015) appare esemplare nel voler difendere una “teologia cattolica” contro le letture funzionalistiche, ma per farlo è costretta a funzionalizzare il sacramento, trasformandolo in una “cultura alternativa”, immunizzata dalla cultura. Per Menke, infatti, le condizioni della “sacramentalità” poggiano su una antropologia univoca e su una ontologia univoca, che ne costituiscono i presupposti. Perciò il pensiero sacramentale e il pensiero postmoderno si comportano tra loro come due opposti, si escludono a vicenda, “perché il pensiero postmoderno non riesce a custodire la distinzione antropologica tra io e non-io e quella ontologica tra un piano indicante e un piano indicato, che sono presupposte dal pensiero sacramentale” (321)

In questo modo, con un gioco di prestigio piuttosto elementare, la sacramentalità diventa funzionale alla difesa di un assetto antropologico e ontologico classico. Può esservi sacramentalità, e quindi cattolicesimo, solo se l’uomo e il mondo sono compresi nei termini di una antropologia delle facoltà e di una ontologia metafisica. Ciò che contrasta con questo modello non è “diverso”, ma “erroneo” e da contestare in radice.

La argomentazione apologetica che comanda il discorso sulla sacramentalità sembra fondata sul sacramentaria, sulla ecclesiologia e sulla cristologia. In realtà si tratta di un modo drastico, e anche piuttosto rozzo, per affermare direttamente una antropologia e una ontologia, senza alcuna possibilità di ascoltare una parola diversa dalla tradizione di fede.

Il primo esempio: sacramentalità e ordinazione femminile

La elaborazione apologetica della categoria di “sacramentalità” – come legittima aspirazione di una teologia sistematica – apre subito, nel libro di Menke, uno spazio di argomentazione diverso per escludere ogni possibilità di “ordinare” le donne. Come è noto, fino ad ora la forma della argomentazione aveva percorso tre vie:

  • la via della mancanza di autorità antropologica: la donna non può rappresentare Cristo perché naturalmente è segnata da “soggezione” e da “inferiorità”;
  • la via della mancanza di autorità cristologica, perché Cristo è maschio e non può essere rappresentato analogicamente da una donna;
  • la via della mancanza di autorità ecclesiale: perché la Chiesa non ha il potere di modificare una tradizione che mai è cambiata.

Rispetto a queste tre forme di argomentazione, la via della “sacramentalità” vorrebbe indicare una “logica di fondo” nella quale, senza mai utilizzare direttamente gli argomenti antropologici classici di esclusione della autorità femminile, si ottiene il medesimo risultato sulla base di una non ben chiarita “sacramentalità”. Che avrebbe, tuttavia, un impatto diverso rispetto alla “teologia di autorità” su cui il magistero sembra essersi assestato dopo Inter insigniores e dopo Ordinatio sacerdotalis. In realtà questo uso del termine “sacramentalità” appare segnato da un limite intrinseco: esso ripropone, mediante una sacralizzazione nostalgica, i presupposti e i pregiudizi antropologici del passato, trasformandoli in “condizioni della cattolicità”. Non vi sono “segni dei tempi”, ma solo “errori dei tempi”, contro cui si resta cattolici solo se li si condanna come “negatori di una sacramentalità” identificata con le comprensioni del passato.

Impedimenti alla ordinazione e sacramentalità

Nell’elenco classico degli “impedimenti alla ordinazione” la teologia scolastica esamina quali soggetti sono senza autorità e perciò incapaci di mediare il Signore, principio di ogni autorità. L’elenco, che comprende i minori, gli schiavi, gli assassini, i figli naturali e i disabili, inizia rigorosamente con il caso “più naturale” di “mancanza di autorità”, ossia dalla donna. Questo orizzonte culturale, che non riesce ad attribuire dignità di autorità pubblica alla donna, muta con il XIX secolo. Quando si cerca di farlo sopravvivere, si devono usare altre argomentazioni. La inerzia del modello antico può essere prodotta da una “negazione della possibilità di cambiarla” (ed è la soluzione adottata dal magistero) oppure si può ricorrere ad altri livelli di argomentazione, che tuttavia dovrebbero risultare persuasivi sulla base di “altre logiche”. Ragionare sulla base dei due principi (petrino e mariano) o sulla base della “sacramentalità cattolica” sembra una via poco efficace per affrontare la questione. Perché nel primo caso, come nel secondo, una ampia articolazione argomentativa, sorta con intenzioni apologetiche, sembra dedurre ogni conclusione da un principio di “gerarchia perenne dei sessi” che si presenta molto meno come un dato rivelato che come un pregiudizio infondato. Nel generalizzarsi di un “principio di sacramentalità” si nascondono non di rado pregiudizi indiscussi. Periculum latet in generalibus.

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