Lo spot sulla “riapertura”: un conflitto tra simboli


VIDEOCEI

Ieri abbiamo visto, per la prima volta, lo spot con cui la Conferenza Episcopale Italiana comunica che dal 18 maggio le Chiese torneranno a celebrare l’eucaristia “con il popolo”. Se si scrive un comunicato, l’esame è immediato. Se si produce un “video” di 55 secondi, l’analisi non può limitarsi al solo registro verbale. La liturgia del post-concilio, con la sua forza, ci ha resi molto più attenti a cogliere tutti i “registri non verbali” di cui è ricchissimo ogni linguaggio, anche quello della “comunicazione pubblicitaria”, di cui fa parte anche il video che abbiamo visto ieri. Prima di esaminare le parole e tutti gli altri linguaggi, tuttavia, premetto alcune avvertenze importanti.

a) Il messaggio nascosto nel simbolo

La simbolica pubblicitaria, come quella liturgica, nasconde la cosa più importante che vuole dirci. Se non è nascosto, non è un simbolo. E nella comunicazione del cinema, della TV e di tutti i “media audiovisivi” la potenza comunicativa si gioca precisamente sull’uso “diabolico” (nel senso etimologico di diabolos, ““divisore”) di grandi simboli universali. Si vendono biscotti come famiglie felici, shampoo o automobili come successo con le donne, detersivi o acque minerali come purezza morale, orologi o dopobarba come vite spericolate. In ogni spot lo spettatore è “giocato” su un doppio livello: deve aderire emotivamente al valore universale, per restare vittima del prodotto particolare. In questo sta la “diabolicità” dello spot: il simbolo unisce, mentre lo spot divide: divide il soggetto da sé, lo scinde in ideale sognatore e concreto consumatore. Questo meccanismo è presente anche nello spot che consideriamo. E come nella pubblicità dobbiamo chiederci “che cosa ci vogliono vendere davvero?”, qui dovremo scoprire “quale modello di Chiesa ci è proposto per la riapertura?”. Ora procediamo alla lettura, prima del livello verbale e poi di quello non verbale.

b) Il linguaggio verbale

Il messaggio inizia con “da lunedì potremo tornare a messa” e finisce con “cittadini responsabili per tornare a celebrare messa in sicurezza”. Poi, per tutti gli altri 40 secondi si elencano in sintesi le normative sulle distanze, sui tempi, sui dispositivi di protezione e sulle condizioni di salute e di contatto. Anche il registro verbale ha il suo bravo livello “non verbale”: la voce maschile, giovane, che pronuncia le parole con calma, ha un tono che solo in apertura e in chiusura manifesta una emozione di moderata soddisfazione, per il resto è un tono tecnico, analitico, quasi anaffettivo, anche se non freddo.  Ma l’accento più emozionato è sull’ultima parola, preceduta da una breve pausa: “in sicurezza”.

c) I linguaggi non verbali

Il dispositivo ecologico e etologico del filmato è assai interessante.

– porta chiusa che si apre, musica di campane e accordi di pianoforte “alla americana”, con tema discendente, un sottofondo di note tenute, di archi, e un motivo vuoto, ascendente, con timbro elettronico, che prevale sul pianoforte gradualmente. Un clima indefinito, quasi una colonna sonora da fantascienza, né triste né allegra, sospesa, che risolve in un crescendo.

– Si vedono due “ministranti” che stanno sulla soglia, discretamente, uno con veste liturgica, l’altro in borghese. Entrano solo due giovani, atletici, una volta ripresi posteriormente, una seconda volta di lato, ma sempre gli stessi due. In Chiesa scorgiamo altri, già presenti. Un uomo di mezza età, seduto e una signora inginocchiata.

– L’aula, molto ampia, è illuminata da una luce calda del mattino, ma è pressoché vuota. Mentre la voce parla di distanze di almeno 1,5 metri, vediamo distanze di 10 metri tra i pochissimi presenti. Anche i volti, per quanto mascherati, e i corpi, sono inespressivi, senza gioia, senza emozione.

– Che si tratti non di una “visita individuale” in Chiesa, ma di una “celebrazione” si capisce solo dal minuto 0.40 al minuto 0.47, in cui colui che presiede arriva all’altare prima a una distanza di 20 metri, e poi a 40 metri dall’occhio della camera.

d) Che cosa ci viene comunicato?

La notizia è chiara: da lunedì si può tornare a celebrare. Ma che cosa ci viene detto di questo celebrare? e della Chiesa che lo sperimenta? Proviamo a scoprire il messaggio nascosto:

– non ci sarà alcun pericolo. Se saremo responsabili, andrà tutto bene.

– la condizione della sicurezza è che si “assista” alla messa individualmente. Neppure lontanamente, né nelle parole, né nelle azioni, vi è traccia di comunità.

– i soggetti esclusi sono i soggetti reali. Alla messa di lunedì, come è probabile, parteciperanno, in larga parte, coloro che non sono rappresentati: ossia non giovani atletici, ma anziani non del tutto sani, che zoppicano e ansimano per aver fatto le scale.

– non c’è nessun segno di sofferenza, di limitazione, di fatica. Sembra che, con gli accorgimenti del protocollo, la Chiesa ritrovi se stessa: senza comunità, con addetti alla messa e con “fedeli” considerati come “fruitori del servizio”. Con qualche attenzione, non cambia niente.

Proprio ieri Giovanni Grandi sollevava la domanda: “ripartire senza imparare”? La rappresentazione che lo spot CEI ci offre è per lo meno equivoca. Realizza, in modo raffinato e quasi soave, una opera di grande rassicurazione. Che però rischia di costituire una certa forzatura almeno in duplice senso:

– Le condizioni  mostrate – del desiderato lunedì 18 – sono “condizioni feriali” abbastanza ordinarie, ma non sono “condizioni festive”.  Che cosa accade la domenica? Il video rischia di essere addirittura fuorviante. Perché il “prodotto messa” non è “standard”. E le condizioni di uso dello spazio, di gestione del tempo e dei soggetti presenti sono molto diverse.

– Ma la messa, comunque, non è un “servizio che una azienda vende a clienti”, ma è “evento comunitario, di intimità, di condivisione, di partecipazione”. La simbolica dello spot è tutta “pubblica” e “privata”: mostra solo la legge e la devozione. Ogni dinamica rituale è spostata su un altare lontanissimo, inaccessibile, un pò triste perché isolato.

La simbolica liturgica è integralmente assorbita dalla simbolica dello “spazio pubblico sicuro”, nel quale il fedele “prega devotamente nel banco” e il prete “celebra all’altare”. Di sicuro il protocollo, che pone le norme di fondo, non impone come fare gli spot. Credo che una maggiore considerazione della verità del rito eucaristico avrebbe consigliato altre scelte: parole meno fredde, dinamiche meno patinate, soprattutto comunità meno rimosse, meno dimenticate, meno irrilevanti, meno negate.

Mi pare che questo “comunicato” dovrebbe rafforzare in noi la domanda allo Spirito, per Pentecoste: “Bagna ciò che è arido, piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido”.

E vorrei aggiungere, in conclusione: anche le più rigide disposizioni necessarie sul piano della sanità pubblica, non ci costringeranno mai ad essere come lo spot ci vorrebbe suggerire. Dobbiamo resistere alle logiche comunicative ed efficientiste, che in occasione della pandemia si lasciano convincere a riproporci la minestrina riscaldata di una chiesa di chierici e di addetti, che confezionano la liturgia a fedeli-clienti, capaci di tenere distanze di “supersicurezza” , chi a 30, chi a 40, chi a 50 metri dall’altare e dagli altri fedeli. Dello spot, dobbiamo accogliere il “messaggio sulla sicurezza”, ma allo stesso tempo dobbiamo rifiutare il “messaggio sulla chiesa”. Una volta rassicurati sul piano civile, cosa che è sempre buona e giusta, il primo modo per rassicurarci sul piano ecclesiale, per riprendere quota, per uscire dalla paura, per ricominciare davvero a celebrare, deve essere quello di dirci, in tutta franchezza: non dovremo mai ridurci così. A nessun costo.

 

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