La tesi ecclesiale del “mal comune” in materia di abusi


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Nel dibattito che si è aperto da tempo anche in Italia, intorno alla questione degli abusi, e su cui papa Francesco ha scritto la memorabile “lettera al popolo di Dio” nell’agosto del 2018, si è insinuata quasi subito nelle parole ecclesiali una tesi riduttiva, che può essere condensata in questi pochi punti essenziali:

a) il fenomeno degli abusi sui minori non è tipico della Chiesa, che presenta soltanto una percentuale di casi che va da 2 al 4 per cento. Il fenomeno riguarderebbe, secondo questa tesi, molto più altri ambienti, come quelli familiari, sportivi, scolastici, dello spettacolo o del servizio militare, che presentano percentuali ben più alte.

b) la insistenza sulle responsabilità ecclesiali, che proporzionalmente sarebbero esigue rispetto agli altri ambiti, mostrerebbe bene un pregiudizio anticlericale e un desiderio di rivalsa nei confronti della chiesa senza una vera giustificazione

c) Anche le vittime, se fossero davvero così importanti, sarebbero tutelate anche nei 96 casi su cento che riguardano altri ambienti abusanti, e non soltanto in quei 2 o 4 casi su cento che toccano direttamente soggetti ecclesiali con responsabilità.

Poiché questa non è solo la tesi di giornalisti senza scrupoli, o di sociologi improvvisati, o di polemisti dalla lingua addomesticabile, ma è argomentazione che viene ripetuta, in modo poco meditato, anche da uomini di Chiesa e addirittura da alcuni Vescovi, è bene mostrarne con chiarezza tutti i limiti. Provo qui a confutare ognuno dei “punti forti” del ragionamento proposto:

a) Ogni agenzia educativa procura una vicinanza, una prossimità, un affidamento e una possibile ingerenza dell’adulto nella sfera del minore: o perché insegna la IV declinazione, o perché aiuta a smarcarsi sotto canestro, o perché guida la mano in un passaggio difficile sulla tastiera, il “maestro” si avvicina all’allievo e gli si fa prossimo col corpo, con la parola, con la autorità. Ma non agisce mai “in persona Christi”. Forse vuole essere un Dio per l’allievo, ma non agisce mai “per Dio” e “in nome di Dio”. Questa è la prima differenza decisiva, che colpisce molto veder dimenticata non dal giornalista o dal polemista, ma dalle parole di qualche Vescovo. Abusare è sempre un fatto grave: tanto se si tratta di abuso spirituale o morale, quanto se si tratta di abuso corporeo o sessuale. Ma tanto più grave è un abuso che abbia, come sfondo o come pretesto, come scusa e come sponda non l’autorità di un uomo, ma l’autorità di Dio. Fare un discorso di “percentuali minori” senza parlare della “responsabilità incomparabilmente maggiore” è miopia umana e irresponsabilità ecclesiale. L’abuso è sempre un peccato contro la persona e contro Dio. Ma se compiuto “a nome di Dio”, o “sotto la copertura di Dio”, è davvero uno scandalo per tutti: anzitutto dovrebbe esserlo per gli uomini di Chiesa, almeno per quelli davvero responsabili.

b) E’ inevitabile che, se è vera la prima confutazione, ne derivi una scarsa rilevanza della “persecuzione” che sarebbe sollevata contro la Chiesa da parte di questi “pochi casi”. Questo argomento è ancora più debole del primo, perché deduce uno scandalo da una proporzione quantitativa. E nota con proprio scandalo che “se la prendono tanto” per un prete, e “non dicono nulla” per un allenatore di calcio o per un maestro di ballo. Se è legittimo attendersi da tutti il comportamento più corretto nei confronti dei minori, è inevitabile che la reazione sia diversa nei confronti di chi non ha alcun “progetto di salvezza” diverso dalla disciplina del corpo o della mente, rispetto a chi si presenta, necessariamente, come il custode di una salvezza globale della persona, della sua dignità e della sua vocazione. Anche qui, se si cancella questa differenza strutturale di partenza e si compara semplicemente l’atto, nella sua figura più formale e nella sua dimensione quantitativa, si smarrisce la misura dello scandalo altrui e la necessità della conversione propria.

c) A cascata, anche il terzo argomento, ancora più subdolo, che mette in dubbio la reale attenzione per le vittime, denunciando il silenzio che cala sulle vittime di abusi “non clericali”, si presenta come una ulteriore caduta di tono e di livello nel dibattito ecclesiale. Anche qui, se è vero che ogni abusato merita la massima attenzione, deve essere riconosciuto nella sua sofferenza e deve essergli riconosciuta una giusta fame di giustizia e di risarcimento, insinuare che la attenzione alle vittime degli abusi clericali sia una sorta di “montatura”, che dimentica la (percentualmente) maggiore sofferenza delle vittime di abusi non clericali, compie ancora una volta una comparazione quantitativa, che non considera la radicale differenza tra la autorità di un bidello, di un professore, di un maestro di coro e quella di un presbitero. Come dicevano gli antichi, “corruptio optimi, pessima”: stupisce molto che alcuni uomini di Chiesa, che dovrebbero ricordare almeno alcune frasi latine, siano tanto smemorati di sapienza classica e usino argomenti degni di giornalisti improvvisati o di sociologi senza discernimento.

La tesi dell’abuso come “mal comune” non deve essere sottovalutata, perché ha una sua pertinenza, proprio nel denunciare una piaga sociale che attraversa le famiglie come le istituzioni, le agenzie educative come le agenzie assistenziali. Ma nascondere la diversa attesa che la società ha nei confronti degli “uomini di chiesa”, mescolandoli nel grande calderone delle “agenzie educative”, dove ci sono pur sempre mele marce, è una forma poco  felice di secolarizzazione dagli esiti clericali, una strategia che vuol trarre tutti i vantaggi dal relativismo sociologico, per non perdere neppure un privilegio clericale.  Che lo dica un polemista, o un giornalista o un sociologo, posso accettarlo. Che lo si senta dire da preti o da vescovi, questo mi scandalizza profondamente e mi chiede di non tacere né di fronte allo scandalo di ogni abuso, né di fronte all’abuso di potere che pretende di fare diventare forti argomenti deboli, di far diventare serie delle parole risibili, di far diventare vittime i violenti con i loro protettori, e violente le vittime con i loro difensori.

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