La presenza reale nella lettura sostanziale e nella lettura rituale: verso una depolarizzazione
Un ampio ragionamento sulla tradizione eucaristica esige di comprendere bene uno dei testi-chiave della lettura moderna del sacramento dell’altare. Il primo dei canoni di condanna della Sessione XIII (1551) offre una sintesi del percorso medievale di formalizzazione del sapere eucaristico, come accurata risposta alle controversie che a partire dal IX secolo hanno interessato la chiesa occidentale. Il testo che si legge in Denzinger (al n.1651) suona così
«Se qualcuno negherà che nel santissimo sacramento dell’eucaristia è contenuto veramente, realmente, sostanzialmente il corpo e il sangue di nostro signore Gesú Cristo, con l’anima e la divinità, e, quindi, tutto il Cristo, ma dirà che esso vi è solo come in un segno o una figura, o solo con la sua potenza, sia anatema. »
Utile è tener presente la versione originale latina, dove accade, in modo assai significativo, un grande passaggio di linguaggio della Chiesa cattolica: ecco il testo latino.
«Si quis negaverit, in sanctissimae Eucharistiae sacramento contineri vere, realiter et substantialiter, corpus et sanguinem una cum anima et divinitate Domini nostri Jesu Christi ac proinde totum Christum; sed dixerit, tantummodo esse in eo ut in signo vel figura, aut virtute: anathema sit»
Ho sottolineato prima i tre avverbi che qualificano il “modo” della presenza del corpo e del sangue del Signore Gesù Cristo, poi i tre quasi avverbi, collocati come antitesi. Pur fondandosi sulla elaborazione di almeno 6 secoli di pensiero teologico e di parole magisteriali, il testo tridentino, a causa della contingenza apologetica di scontro con le posizioni del protestantesimo, compie una svolta drastica nell’introdurre, anzitutto con questo testo, una contrapposizione netta tra il linguaggio ontologico e veritativo, rispetto al linguaggio del segno, della immagine e della virtù. Questa posizione, per salvaguardare la tradizione, la riesprime con nuove polarità, che nel tempo si sono dimostrate non efficaci e in qualche caso dannose. Per questo è utile considerare bene i due linguaggi che si contrappongono e scoprirne le interne relazioni. Forse proprio questo è stato il più grande merito del Movimento Liturgico e della Riforma Liturgica: recuperare quello sfondo segnico, figurale e virtuoso che nella triade degli avverbi ortodossi è rimasto schiacciato ed emarginato.
In realtà, a me pare, proprio il terzo degli avverbi (substantialiter) costituisce una sorta di “ponte” tra i due linguaggi e permette una rilettura tardo-moderna, che può tornare a parlare con legittima autorità del segno, della figura e della virtù, senza temere di essere immediatamente catturata dalla condanna dell’anatema. Potremmo dire, quasi come una tesi, che una “presenza sostanziale” e una “presenza rituale” differiscono per linguaggio, ma non si contraddicono nel restituire al sacramento quella irriducibilità che la tradizione ha sempre voluto salvaguardare. Esaminiamo questi due diversi modelli.
1. Potenzialità e limiti del linguaggio della sostanza
Con la affermazione del “modo della sostanza” in cui è veramente presente il Corpo di Cristo nella eucaristia si sposta la attenzione, in modo radicale, dal visibile all’invisibile. E’ interessante il fatto che Tommaso d’Aquino, nel percorrere la strada della spiegazione sostanziale della presenza, metta in luce un aspetto per noi davvero sorprendente. Egli dice, infatti, che il corpo di Cristo di rende veramente e realmente presente come “sostanza”, ma non incide sugli accidenti del pane e del vino, che vengono dette “specie”. Ma la parola “specie” abbrevia una presenza non sostanziale delle “nove” dimensioni che, unite alla sostanza, identificano un ente: qualità, quantità, relazione, temporalità, località, modalità, possesso, azione, passione. Questi sono gli “accidenti” e tutti restano riferiti al pane e al vino, non al corpo e sangue di Cristo. Che cosa significa questa osservazione? Che la presenza sostanziale è una affermazione ontologica, a sostegno della fede, che però isola il corpo di Cristo dalla contingenza e dalla storia. Una duplice conseguenza di questa spiegazione è:
a) l’isolamento della consacrazione da ogni altra sequenza del rito eucaristico, come centro dogmatico della presenza sostanziale;
b) la emarginazione della preghiera eucaristica e della comunione come passaggio dal Corpo di Cristo sacramentale al Corpo di Cristo ecclesiale.
Questi due fenomeni sono il frutto di una traduzione “sostanziale” della presenza, che diventa nascosta e separata, alimentando una custodia clericale del mistero. Il mistero è riconosciuto irriducibile, ma viene ridotto ad un linguaggio e ad una forma troppo astratta e troppo esclusiva. Questo dipende in larga misura dalla scelta di impostare la distinzione sulla differenza ontologica tra sostanza e accidenti. La quale, tuttavia, non è una differenza tra essere e non essere, ma tra diverse accezioni dell’essere, che, appunto, “si dice in molti modi”. Aver scelto solo il linguaggio della sostanza, per dire la presenza del Corpo di Cristo, ha causato l’accentuazione dell’isolamento della consacrazione e della conseguente perdita di relazione tra sacramento e chiesa. Fino a determinare persino il modo di pensare la autorità nella Chiesa, dando al presbitero il potere sul “corpo di Cristo sacramentale” e al vescovo quella sul “Corpo di Cristo ecclesiale”. Anche questa distinzione, oggi superata, discende in qualche modo dalla versione sostanziale della presenza reale, che tende a perpetuarla anche oggi. Transustanziazione dice anche, indirettamente, una visione del potere nella Chiesa.
La versione rituale della presenza reale
Questo sviluppo tridentino, ispirato dalle categorie medievali e scolastiche, impone alla tradizione cattolica una polarizzazione assai alta. Almeno fino al XIII secolo, pur dentro un processo di nuove distinzioni e nuove articolazioni del sapere eucaristico, ma senza la nuova sfida portata dalla Riforma, era stato possibile tenere insieme quei termini che ora il Concilio di Trento sente il dovere di opporre tra loro: verità e figura, realtà e segno, sostanza e virtù non potevano essere nettamente contrapposte.
In effetti, se torniamo al can.1 sulla eucaristia, quel “conflitto di avverbi” che abbiamo segnalato all’inizio appare, per la tradizione cattolica, una cosa nuova. Per tutto il primo millennio il linguaggio sulla eucaristia aveva utilizzato, in modo del tutto ortodosso, le tre parole che ora venivano collocate nella regione dell’errore: segno, figura e virtù sono parte costitutiva del linguaggio eucaristico di Agostino, di Ambrogio, della scolastica almeno fino ad Innocenzo III.
La riscoperta di questa verità, però, ha dovuto attendere quasi 4 secoli. Dopo il Concilio di Trento, infatti, occorre attendere il XIX e poi il XX secolo per far spazio a quel “ressourcement” (ritorno alle fonti) che dopo il Concilio Vaticano II ha permesso di ritornare alla ricchezza del linguaggio e della esperienza dei padri. Non è azzardato affermare che questo percorso di risignificazione, che per l’eucaristia inizia con il Movimento Liturgico, ci offra oggi un visione della presenza reale che è fondata non tanto su una lettura sostanziale, quanto su una lettura rituale.
Il punto di partenza consiste nella valorizzazione di un approccio diverso alla tradizione: non si usa anzitutto la differenza tra sostanza e accidenti, ma la ricchezza dei linguaggi rituali. Mentre la impostazione sostanziale, come abbiamo visto, produce una irriducibilità per sottrazione, la impostazione rituale produce una irriducibilità per addizione. Provo a spiegarmi meglio.
Pensare la messa come “evento sostanziale” introduce una riduzione del suo significato alla pronuncia della formula del presbitero sulla materia. L’evento sostanziale non ha bisogno di altro che di questo, tutto il resto è cornice cerimoniale di un evento dogmatico invisibile.
Pensare la messa come “evento rituale” significa fare esperienza della presenza reale del Signore in un processo rituale, che non può essere ridotto ad un punto. Per dire e per sperimentare questa presenza vera e reale la Chiesa non può riferirsi solo alla sostanza, ma deve entrare in tutta la dinamica degli accidenti: le qualità, le quantità, le relazioni, la temporalità, la spazialità, la modalità, il possesso, la azione e la passione sono tutti elementi qualificanti la presenza del Signore. La intelligenza del mistero avviene “per ritus et preces” (SC 48).
Questa nuova coscienza liturgica, che esce dalla contrapposizione tra sostanza e specie, tra contenuto dogmatico e cornice rituale, è una delle grandi novità del XX secolo, che il il XXI ha ricevuto in eredità. Da un certo punto di vista dobbiamo riconoscere che la transustanziazione dice la verità della eucaristia in modo troppo astratto, con un eccesso negativo: appunto per sottrazione. Per dire la presenza reale non si può lavorare solo sul “che cosa è” (sostanza). Bisogna lavorare anche sulle altre nove categorie ricordate sopra, con cui gli antichi hanno formalizzato il modo di pensare il reale. Dovremmo concludere che nella eucaristia gli accidenti non possono essere pensati e vissuti come accidentali. Il Movimento Liturgico è stato uno degli inizi di questa rilettura categoriale della tradizione, nella quale la verità, la realtà e la sostanza del corpo di Cristo debbono essere sperimentate e pensate sempre anche come segno, come figura e come virtù. Senza questa depolarizzazione del linguaggio tridentino, la chiesa cattolica oggi non riesce a fare esperienza della presenza reale. Non si tratta di fare una cosa nuova, ma di uscire dalle polarizzazioni che la Chiesa moderna, di fronte a nuove sfide, aveva introdotto nel pensiero e nella esperienza ecclesiale e che oggi non restituiscono ai cristiani né un pensiero né una esperienza alla altezza delle nuove sfide contemporanee. Il dogma della presenza reale può essere detto e vissuto in forma più ricca se una lettura rituale permette di superare i limiti della visione sostanziale.