La predicazione in rapporto alla cultura (dialogo con un caro amico)


Ho ricevuto da un caro amico questa nota, che solleva alcune questioni importanti, su cui si può riflettere con calma.

«La predicazione, l’ annuncio: chi lo ha detto che solo i chierici debbano predicare?

Oggi si pone un interrogativo più grave: soprattutto oggi, i chierici non sembrano in grado di predicare, a causa dell’ arretratezza della loro formazione . Non si tratta che gli intellettuali non possano sentire gran parte delle prediche, bensì le persone ” ordinarie”, come me, di media e bassa cultura.
La predica, oggi, in gran parte, è scissa, lontana, separata dal ” ragionamento comune contemporaneo”, persino dai pregiudizi volterriani su cui occorrerebbe incidere con un senso critico.
Si sentono, frequentissime, le prediche ” eretiche”, distorsive, sbagliate, sui dogmi cristiani.
C’è un grave problema di formazione dei predicatori. E soprattutto tra i più giovani presbiteri.
C’è un grave ritardo nella formazione teologica di base, precipuamente rispetto all’ aggiornamento scientifico.
È necessaria una formazione di scienze fisiche di base e quantistiche, epistemologiche e antropologiche, biologiche, psicologiche e neuroscientifiche.
Occorre tornare ai grandi predicatori medioevali, aggiornati perfettamente con le conoscenze scientifiche del loro tempo.
E’ necessaria una mente scientifica contemporanea per predicare, oltre a quella teologica, ovviamente.
Per questo sarebbe meglio, per il momento, lasciare il posto ai ” cosiddetti” laici. »

La questione sollevata, al di là della discussione sulle competenze (di chierici o di laici), impone una riflessione sul punto centrale. Qual è il presupposto di una “capacità omiletica” di annuncio e di predicazione? Dietro la domanda sollevata c’è una questione che non si risolve in modo semplicistico: non basta la pretesa autosufficienza di una formazione biblica e teologica per uscirne.  Per questo è in gioco il modo di intendere la “formazione” per coloro che tengono in una comunità il discorso dell’annuncio.

Qui, evidentemente, non vale più soltanto la distinzione tra chierici e laici. Oggi ci sono laici molto più preparati dei chierici. Essi sono, più chierici dei chierici. Ma dietro sta una questione più profonda. Che cosa deve studiare un soggetto (chierico o laico che sia) per poter “annunciare il vangelo”?

La soluzione che abbiamo escogitato nel XIX secolo, rielaborando il progetto tridentino, ha creato un “luogo di formazione” del futuro predicatore del tutto isolato dalla cultura. Abbiamo pensato, per la prima volta nella storia in modo tanto drastico, che la teologia dovesse alimentarsi solo al suo interno, che potesse vivere totalmente della Parola, spesso ridotta a dottrina. In questo vi era certamente una ispirazione fondata e antichissima, ma la sua elaborazione culturale ha preso le forme dell’antimodernismo. Questa opzione ha dominato per 60 anni in Europa, dalla fine del 1800 agli anni 50. E molti continuano a pensare che le scienze “non teologiche” siano sostanzialmente “scienze aliene”, quando non “pericolose”.

Questo crea quello scollamento che la lettera denuncia. Ma lo scollamento non è casuale, è progettato in partenza. Si formano i preti giovani con “omogeneizzati culturali”, con “filosofia liofilizzata”, con “scienze filtrate”, con “”psicologie addomesticate”. Qui sta la radice della afasia comunicativa.

Dire il Vangelo nella storia non è stato mai semplice. Ma in ogni epoca la Chiesa si è messa in dialogo e in confronto con la migliore cultura a disposizione. Solo l’ultimo secolo ha pensato che ai maestri del sospetto si dovesse contrapporre il sospetto verso la cultura. Così ci ritroviamo molti giovani preti che non sanno minimamente confrontarsi con la cultura e usano il Vangelo, la Bibbia o il Catechismo non come lampade, ma come martelli, con cui colpire gli errori e le forme di vita.

La domanda che chiude la lettera è provocatoria, in modo sano: dice che una apertura ai laici che predicano può essere una soluzione. Sicuramente questo porterebbe altri linguaggi nella comunicazione della fede. E tuttavia non risolverebbe la questione di fondo. La cosa emerge bene nella esperienza di predicazione dei diaconi permanenti. Senza generalizzare, queste figure intermedie, che sono da un lato chierici, ma che conducono spesso una vita pienamente laicale, se chiamati alla predicazione non raramente risultano più deludenti dei preti: forse perché formati in modo meno accurato e meno assiduo. Senza formazione adeguata, le parole suonano vuote o futili o distorte.

Insomma, la qualità della predicazione dipende non solo dalla qualità della fede, ma dalla competenza nel mediare linguisticamente la fede per uomini e donne del nostro tempo. Questo significa, come dice bene la lettera, che un confronto con la migliore cultura del tempo sarà in grado di rinnovare non solo le parole, ma anche le forme della devozione e del culto, le modalità della testimonianza e dell’esercizio della autorità.

Tra le cose che ci portiamo dietro da secoli c’è ‘idea che “predicare” non sia compito del parroco, ma del Vescovo e di (alcuni) religiosi. Uscire da questa cultura del “munus profetico” riservato a pochi è difficile. E non passa solo per un riconoscimento formale, ma esige una cura sostanziale e paziente dei linguaggi necessari per declinare la fede in modo discorsivo. Uscire dalle evidenze antioderniste non è facile, soprattutto quando si pensa a come formare i futuri presbiteri nei seminari. Dove spesso regna ancora il pregiudizio di una “cultura separata”. Che al momento della omelia spesso si traduce in insignificanza o in rigidità. Questo rischio, che certo non riguarda tutti coloro che diventano preti, ma un numero non insignificante di essi, è però un prodotto della istituzione, non un evento casuale. Per questo dobbiamo prendercene cura comunitariamente, pastoralmente e teologicamente, anche a partire dal grande disagio di fronte a prese di parola senza respiro e senza forza. Su questo disagio non si deve tacere.

Share